Biba Giacchetti, è stata nostra ospite tre anni fa. In quella occasione abbiamo avuto il piacere di conoscere il suo lavoro di curatrice e l’agenzia Sudest47. Grazie a lei, in Italia, abbiamo imparato ad apprezzare i lavori fotografici di Steve McCurry, Elliot Erwitt, Tina Modotti, solo per citarne alcuni. In questa intervista, scopriamo Zanele Muholi – preferibilmente solo Muholi – fotografa e attivista sudafricana (individuo che ha scelto di definirsi al plurale, usando il pronome “loro” anzichè che “lui/lei”, ma non è né un collettivo, né un gruppo di artisti). Biba ha infatti curato il progetto “Muholi. A Visual Activist” in mostra al Mudec di Milano fino al 30 luglio 2023, attraverso cui porta in Italia una selezione di oltre 60 immagini, e 10 anni di lavoro introspettivo e fortemente impegnato a indagare e sostenere i diritti umani e, in particolar modo, quelli delle comunità LGBTQIA+.
Cosa ti ha incuriosito nel conoscere Muholi, e quanto è stato difficile portare questa mostra in Italia, considerando tutti gli aspetti politici, culturali e sociali che contraddistinguono il nostro paese?
Questa è una domanda interessante, perché mi è stata fatta proprio da Muholi, nel senso che l’artista comprende quanto può essere complesso trattare questi argomenti e soprattutto avere un’intera mostra dedicata esclusivamente a un corpo nero.
In realtà, per spezzare una lancia a favore delle nostre istituzioni, dei nostri musei e degli italiani in generale, devo dire che non è stato affatto difficile. Il Museo Delle Culture, come dice il la definizione stessa, collabora a tutto tondo e fa proprio un vanto il portare avanti un discorso sia sull’attivismo in generale, non solo sulla fotografia, ma sull’arte in generale, sia su delle espressioni artistiche che vengono da culture molto lontane e molto diverse. Quindi, entrambi questi aspetti sono stati accolti con entusiasmo, con interesse, anche con coraggio, perché Muholi, non ha ancora raggiunto una notorietà in Italia, sono conosciute solo alcune immagini, portate avanti con grandissimo successo nell’ambito del circuito dell’arte. Diciamo però così, il grande pubblico deve ancora avvicinarsi all’artista.
La selezione delle opere da mettere in mostra determina il messaggio che sicuramente si vuole trasmettere allo spettatore, è spesso una questione di estetica, ma può anche determinare un cambiamento verso quella che è la percezione artistica del pubblico, raccontare con forza nuove visioni o confermare e rafforzare quelle che si hanno già: si decide cosa rimane, cosa viene visto. Quali sono le opere quindi che sono state “scartate” per questa mostra e perché?
È una mostra che si muove sostanzialmente su due piani, un strettamente artistico, che soddisfa un’esigenza estetica, con delle immagini attraenti, accattivanti, che possano lasciare un segno nel pubblico; un piano tra virgolette educativo, che porta avanti il messaggio dell’attivismo dell’artista che è un messaggio molto preciso, duro, concreto e che ha a che fare moltissimo con la vita, la realtà di ciascuno di noi. Quindi, questo è stato proprio il concetto su cui Muholi ed io abbiamo operato la selezione delle opere. Parliamo di un lavoro di centrato sull’autoritratto, che è il lavoro principale, il progetto più importante e più conosciuto, già pubblicato in un grande libro che in Italia è edito dal Sole 24 Ore.
Questo progetto si chiama “Somnia” e va avanti oramai da dieci anni; pertanto, abbiamo voluto selezionare delle immagini che fossero ormai, diciamo così, dei classici acquisiti, perché già molto pubblicate. Sono fotografie che parte di collezioni importanti o esposte in altre mostre, come quella che è stata fatta alla Tate o come quella che è in corso in questo momento a Parigi. A queste abbiamo affiancato immagini scattate in tempi molto recenti, più contemporanee. Inoltre, abbiamo voluto alternare i messaggi molto precisi di Muholi, alternando delle fotografie di denuncia più dura a quelle che hanno una maggiore valenza estetica, una maggiore dolcezza, per comunicare un senso di desiderio di futuro, di speranza e di apertura.
Parliamo di una visione d’insieme, il curatore lavora per fornire al pubblico un messaggio e una continuità, per mantenere alta l’attenzione e il coinvolgimento. In questo percorso fisico e narrativo che lo spettatore compie al Mudec, su cosa si è voluto puntare e perché?
Innanzitutto, ho voluto presentare Muholi. Nell’introduzione è stato per me molto importante arricchire questa mostra di diversi contenuti, molti di più rispetto ad altre mostre di fotografia. Ci sono dei pannelli introduttivi che sono biografici, che raccontano il contesto in cui l’artista ha visto la luce e soprattutto, quali sono le sue radici, il Sudafrica, l’Apartheid, le persecuzioni all’universo queer, di cui è esponente. Attacchi diretti, personali anche molto gravi, grandi dolori subiti prima della celebrità. Abbiamo voluto e dovuto raccontare tutto questo e per questo motivo abbiamo preferito scrivere delle spiegazioni abbastanza lunghe per le immagini. C’è anche un’audioguida. Inoltre, lungo tutto il percorso della mostra sono presenti degli hashtag, spesso usati per comunicare e che sono un po’ la sintesi degli interventi politici e sociali di Muholi. Infine, in chiusura di mostra, abbiamo lasciato dei quaderni, invitando le persone a interagire con Muholi e a scrivere delle cose. Nel percorso della mostra c’è anche un’installazione tridimensionale: un letto su cui è stato appoggiata una coperta, un rivestimento che riporta una fotografia, perché recentemente l’artista sta portando la sua attenzione nei confronti di quello che appunto simboleggia il letto, il luogo di riposo, il luogo di riflessione, il luogo dove ci si rigenera, ma anche luogo dove possono venire violenze, luogo anche di riflessione, anche di incubi, in tutti i sensi. Questo è in sostanza il percorso della mostra: nella prima parte ci sono degli autoritratti, senza gli oggetti che normalmente vengono utilizzati da Muholi; nella parte centrale ci sono invece le immagini più strettamente di denuncia, mentre in quella finale immagini più leggere e di speranza per lasciare il visitatore con un senso di apertura verso il futuro.




Le fotografie di Muholi sono testimonianza, documentazione, cronaca di una azione politica vera, reale, concretissima. Può quindi la fotografia, come buona parte delle forme d’arte, giocare un ruolo importante nel veicolare un messaggio e sensibilizzare all’azione quando parliamo di temi così profondi come i diritti dei neri e delle comunità LGBTQI+?
Sì. La risposta è assolutamente sì, ce l’ha insegnato Tina Modotti, di cui ho curato una mostra proprio al MUDEC, che è stata la primissima fotografa attivista di tutti i tempi negli anni ’20 del novecento. Tina aveva compreso che la fotografia poteva raggiungere chiunque, al di là dello status sociale, al di là della capacità, anche solo di leggere e scrivere. Quindi la fotografia è proprio un mezzo assolutamente universale. Questo insegnamento di Tina Modotti è stato recepito poi in tutto l’arco temporale dai fotografi che hanno seguito le sue orme. Muholi ne è un esempio, nell’utilizzo delle proprie immagini, soprattutto con gli autoritratti in cui si mette in scena utilizzando oggetti di uso comune o anche di oggetti di scarto, come possono essere le mollette del bucato, i tubi della lavatrice, le fascette che si utilizzano per i piccoli lavori domestici o i copertoni delle biciclette, per raccontare le atrocità di ogni genere a cui la sua comunità e in generale l’universo nero ha dovuto confrontarsi.
Pensiamo alla tortura del “necklace”, che è una cosa orribile, creata appunto in Sudafrica qualche decennio fa, con cui le persone venivano bloccate con questi pneumatici in modo che non si potessero muovere e poi veniva dato loro fuoco. Oppure, appunto le mollette del bucato che sono acconciate a forma di corona.
Le posizioni assunte di fronte all’obiettivo sono delle posizioni e degli sguardi molto fieri, molto accusatori e le mollette del bucato rievocano la condizione delle donne nere sudafricane, obbligate a causa del Jobs Act, a fare unicamente una certa tipologia di lavori che erano appunto dei lavori umili, come le pulizie nelle case dei bianchi. Quindi sì, ogni fotografia sviluppa proprio un tema molto preciso. Voglio però anche dire che nel tempo l’attività di Muholi si è evoluta e non è più solo una denuncia nei confronti di qualunque forma di razzismo, ma parliamo proprio di diritti umani, parliamo di quello che può essere importante proprio per ciascuno di noi. Quindi, anche l’importanza di mantenere alta la propria facoltà espressiva, l’importanza di portare l’arte nella nostra vita, l’importanza di non assoggettarci a niente a nessuno, qualunque sia la condizione umana, partendo proprio, come mi chiedevate, dai diritti dei neri e dai diritti della comunità LGBTQI+.
Il pregiudizio etnico, sessuale o religioso, come dicevamo è ancora una questione aperta in Italia. Cosa significa per un’attivista e artista come Muholi venire a presentare il proprio lavoro ad un pubblico come questo? Come si viene accolti e percepiti dal pubblico?
Sicuramente c’è il desiderio che ci sia una grande inclusività nella mostra, perché si possa parlare ad un pubblico ampio, trasversale, a tutti. Si è chiesto in particolare al MUDEC, di fare qualunque cosa per coinvolgere le comunità nere, perché spesso si ritiene che le persone appartenenti alle comunità nere si autocensurino e pensano di non essere ben accolte in un contesto istituzionale museale. Detto questo, in realtà poi esistevano proprio anche molti visitatori di colore, pur sapendo che a Milano la comunità nera non è la comunità più diffusa. Ci sono delle comunità molto importanti, di cinesi, o che arrivano dal Sud America, ma la comunità nera in realtà è una parte più esigua. C’è comunque una grande abitudine a confrontarsi con le istituzioni museali di tutto il mondo che fanno capo soprattutto ad un mondo Europeo occidentale e diciamo così, tra virgolette bianco, anche se possiamo dire che i problemi più grossi sono proprio forse nel paese di origine, nel Sudafrica, dove ancora si deve combattere pur avendo una costituzione molto aperta.
Dal 96 in poi c’è questa Costituzione che addirittura riconosce, ed è stata la prima, il diritto del matrimonio nelle comunità queer, ma in realtà il pregiudizio sussiste ancora molto forte.
Qui io non ho avuto questa esperienza, non so se perché sia la mia lettura, ma dal mio punto di vista attraverso l’intensa frequentazione e amicizia con Muholi ho iniziato a pormi ancora di più il problema, a mettermi di più nel nei panni di chi si sente, appunto, invece magari più estraneo ed emarginato. Quindi sto ponendo una maggiore attenzione, sto cercando di comprendere, perché talvolta noi non riteniamo di esercitare un pregiudizio razzista invece in qualche nostro comportamento, magari anche solo uno sguardo, un atteggiamento piuttosto che una parola o un modo di dire, possono essere invece ritenuti offensivi o comunque denigratori. E dobbiamo prendere atto che, per esempio, nel mondo italiano dello sport ci siano indubbiamente delle persone che hanno ottenuto dei grandissimi risultati, ma che denunciano un atteggiamento ancora negativo nei confronti appunto del razzismo e di una completa accettazione. Quindi dobbiamo prendere atto di questo e porci maggiormente il problema.
Qualsiasi fotografia ha una finalità, una destinazione, un contesto e uno scopo. Ci sono fotografie che nascono per finire in cornice, altre per condivisione sui social, alcune trasmettono l’intenzione di una contemplazione manifesta e altre ancora una commercializzazione implicita. Come nascono queste fotografie? Hanno un loro ruolo specifico e una loro voce?
Questo progetto di autoritratto nasce per sopravvivere, dal momento che nel 2012 qualcuno si è introdotto nella sua casa di Johannesburg portando via tutti i file e tutta la documentazione, proprio per questo spirito attivista che documentava i crimini che venivano perpetrati nei confronti della Comunità queer del Sudafrica. Moltissimi file non ancora pubblicati sono stati rubati, anni di lavoro, si parla di documentazioni di eventi che sono perse per sempre. Quindi, nel 2012, dopo una crisi profondissima, Moholi vincono una Residenza d’artista in Italia, in Umbria. È qui che si concepisce l’idea di interrompere temporaneamente, sebbene poi il progetto sarà portato avanti in parallelo, questa documentazione di ciò che avviene nell’universo della comunità e iniziando a realizzare questi autoritratti, proprio come la necessità di sopravvivere, di trovare un linguaggio diverso, di entrare in contatto con il proprio sé, di iniziare un discorso che viene definito spesso anche straniante, anche snervante, molto coraggioso perché non semplice. Tutte le foto hanno la finalità di avere un messaggio, ma alcune di esse, ne sono state scattate più di 500, non saranno mai condivise con nessuno, sono immagini strettamente personali e private. Abbiamo però un angolo in mostra dove abbiamo messo delle immagini maggiormente riflessive, che non hanno necessariamente una finalità di denuncia, ma raccontano un momento privato e personale dell’artista in cui sono accadute delle cose molto umane: malattie, perdite di familiari o anche delle situazioni più leggere, gioiose. Quindi, non c’è da parte di Muholi, nel realizzare questi autoritratti, un desiderio specifico, una finalità che possa essere appunto strettamente artistica piuttosto che strettamente di denuncia. Anche nei giorni dell’apertura della mostra di Milano sono state scattate, per esempio, delle fotografie dell’hotel, che poi sono state condivise sui social. Detto questo, non c’è una finalità specifica.
Poi è stato il mondo dell’arte che si è inginocchiato ai suoi piedi, perché il talento straordinario e la capacità di creare delle immagini che sono assolutamente diverse da tutte le altre, ha fatto sì che appunto la comunità dei curatori, dei direttori dei musei, dei grandi collezionisti, delle grandi fondazioni, si precipitassero ad omaggiare in ogni possibile modo.
Come mai si è scelto il linguaggio della fotografia in bianco e nero? Il bianco e nero contiene più epica? Forse è più narrativo, più cinematico? Quanto conta l’improvvisazione e quanto, invece, lo studio dell’immagine?
Il bianco e nero è una scelta specifica, perché si voleva parlare del corpo nero, si voleva invertire la narrazione che la storia dell’arte ha avuto fino a giorni nostri nei confronti delle persone di colore e voleva ridare una dignità e riscrivere in sostanza la storia dell’arte. Molte di queste posizioni che il busto assume si rifanno a dei classici della storia dell’arte. Con un master universitario, l’insegnamento, diversi premi e l’aver ricevuto il riconoscimento Cavaliere delle Arti e delle Lettere in Francia, è tutt’altro che un personaggio che improvvisa, c’è cultura, studio e approfondimento molto forte.
Questa è la ragione della scelta del bianco e nero, proprio per portare alle estreme conseguenze, nel contrasto. Quindi, ecco i neri molto caricati e i bianchi molto accentuati, un contrasto molto forte che vuole proprio essere un linguaggio espressivo che evidenzia, che sottolinea, la fisicità del corpo nero.
Questo concetto, vale a dire il contrasto molto forte, è stato anche sottolineato in mostra da una appropriata disposizione delle luci, anch’esse molto contrastate, molto artistiche, molto fine art. Tra l’altro è una squadra intera di donne che ha fatto le luci.
Quindi questa è la ragione del bianco e nero. L’improvvisazione, invece. Le immagini non sono affatto costruite, ma scattate come una necessità del momento, con quello che si trova intorno e in quella che è la situazione che si sta vivendo da un punto di vista di sentimenti personali. Scattate in totale solitudine, non è presente nessuno durante queste fotografie e senza l’utilizzo di specchi.





Ti senti di rispondere anche a una domanda tecnica, cioè se c’è una post-produzione in queste fotografie e se sí, che tipo di interventi vengono fatti?
Mi sento di rispondere, perché durante la conferenza stampa e nei giorni in cui Muholi è stata a Milano, questa domanda è stata affrontata spesso; quindi, conosco le risposte che ha dato e mi sento di rispondere e di ripetere quello che è stato detto durante le conferenze.
Si carica molto in post-produzione, appunto, il contrasto dei bianchi e neri. Non ci sono altre elaborazioni, la composizione degli oggetti avviene in maniera proprio fisica, non c’è un intervento successivo, al computer. L’unica cosa che si fa, appunto, in fase di stampa, è caricare molto i neri e i bianchi, perché il corpo in effetti non è così nero, pertanto ecco l’estremizzazione, una rivendicazione per enfatizzare questo colore. Per il resto sono delle fotografie fatte con oggetti trovati e con dei piccoli trucchi, come per esempio per evidenziare le labbra che altrimenti spariscono sul nero, è stato utilizzato il dentifricio. Piccoli trucchi appunto, ma sono fotografie che non hanno altro tipo di post-produzione.
Per concludere, io ti farei una domanda semplice, e di rito alle curatrici/ ai curatori di mostre. Hai qualche suggerimento da dare a chi viene a vedere questa mostra al MUDEC?
Ne ho uno solo che non so se sarà ascoltato, leggete anche tutto quello che è stato scritto, perché oltre a questa sensazione personale molto forte che si percepisce al cospetto delle immagini e che è la stessa che ha colpito me, che mi ha portato poi nel tempo a desiderare di curare una sua mostra, per l’impatto dell’immagine, dello sguardo che sembra quasi rivolgersi a noi, uno sguardo straniante che ci mette sostanzialmente in discussione, credo che sia molto importante leggere anche il corredo, perché anche per l’artista è stato molto importante.
Sono stata ringraziata per questo, mi è stato detto giustamente, bisogna raccontare il perché. Bisogna raccontare in che direzione si deve andare. Bisogna dire che ci può essere una speranza se soprattutto si educano le nuove generazioni, se si interrompe questa catena di odio che poi può portare solamente a delle conseguenze nefaste. Questo è l’unico consiglio che do, soprattutto di divertirsi, di andarla a vedere, di avere piacere nel vederla.
Mariantonia Cambareri