Carlotta Cardana è nata a Verbania nel 1981, dopo la laurea in Teatro e Arti della Scena presso l’Università di Torino, si è diplomata presso l’Istituto Italiano di Fotografia a Milano. Lavora come freelance per note testate giornalistiche a Buenos Aires, Città del Messico e Londra, dove si divide tra commissioni e progetti personali. I temi su cui si concentra sono legati alla costruzione dell’identità, al senso di appartenenza alle “sub-culture”.
Come e quando è nata la tua storia personale della fotografia?
Ho sempre fotografato ovviamente non da professionista. La mia prima macchina fotografica mi è stata data quando avevo sei anni da mio papà. Era una di quelle Polaroid che conservo e uso ancora. Mio papà è appassionato di fotografia per cui la fotografia è sempre stata parte della vita familiare. Era un hobby che mi è piaciuto avere come documentazione senza alcun fine artistico. Fotografavo le vacanze, il tempo trascorso con gli amici. All’università, ho frequentato il DAMS e ho studiato teatro perché volevo dedicarmi alla regia. In realtà sono finita a lavorare nell’ambito del circo contemporaneo. Però ai tempi dell’università ho voluto approfondire iscrivendomi a un corso per fotoamatori per capire come funzionava la fotografia. In seguito, mentre lavoravo nel circo, mi sono resa conto che la fotografia era una passione molto più forte, passavo molto tempo a fotografare gli spettacoli e gli artisti. È stato in quel momento che ho deciso di iscrivermi a un corso professionale di fotografia.
La tua attività si snoda attraverso due binari, i progetti editoriali e i progetti personali di fotografia documentaria e ritratti.
Mi piacerebbe soffermarmi su “The Red Road Project” in cui ti sei occupata degli Indiani d’America. Quale è stata la genesi di questo lavoro? Da dove nasce l’idea del titolo? Il tuo sguardo ha indagato più il passato o il presente?
Io ho frequentato un anno di liceo negli Stati Uniti, quando avevo sedici, diciassette anni in un piccolo paesino del Nebraska, non molto disponibili nei confronti degli stranieri. Quell’anno non ero l’unica ultima arrivata. C’era anche Danielle SeeWalker, nativa Dakota, con la quale è stato spontaneo stringere amicizia e rimanere in contatto negli anni. Una decina di anni fa, durante una sua visita a Londra, parlando di questioni native ci siamo rese conto che le mie idee, che derivavano da quello che ci viene insegnato a scuola, da quello che leggiamo nei media, erano molto distanti dalla realtà vera. Esisteva una differenza tra quello che pensavo io e quello che mi raccontava lei e che, probabilmente, riguardava tutti. Danielle mi aveva invitato ad accompagnarla nella riserva per alcune cerimonie familiari per cui abbiamo deciso di utilizzare questa occasione per provare a fare un lavoro insieme in cui raccontare la situazione dei nativi americani. L’idea era di concentrarci sugli aspetti positivi perché di quelli negativi se ne parla sempre. Si pensa sempre a loro in termini di povertà o abuso di alcol ad esempio. Se ti soffermi solo su questi aspetti, crei ulteriori problemi. I giovani nativi non erano orgogliosi di essere nativi. Era necessario creare una rappresentazione positiva.

Da qui deriva il titolo del progetto. Infatti secondo diversi insegnamenti nativi esistono due strade, la strada rossa e la strada nera. Semplificando quella rossa è la retta via, la via verso il cambiamento positivo che ti permette di rimanere collegato alle tue tradizioni, quella nera è quella della dipendenza.
Ci sembrava dunque che questo titolo rappresentasse perfettamente quello che volevamo fare.
È un progetto ancora in divenire?
Si, sta proseguendo in un altro modo. Da una collaborazione tra scrittrice e fotografa siamo passate a un’organizzazione a tutti gli effetti. Da quasi due anni ci siamo costituite come no profit il cui scopo è quello di promuovere la cultura nativa americana. È stato uno sviluppo organico, omogeneo perché ci rendevamo conto che il bisogno di questi racconti era così esteso che gran parte della nostra attività era dedicata a progetti educativi con le scuole.
Ci chiedevano di organizzare dei workshop, di preparare materiali per cui l’unico modo per far continuare il nostro progetto era crescere come organizzazione. Oggi gran parte del lavoro è legato all’ambito educativo. Abbiamo ricevuto un finanziamento dallo stato del Colorado per realizzare una serie fotografica e un piccolo documentario sulla situazione degli indiani urbani. Infatti la maggior parte della popolazione nativa oggi vive in aree urbane per una serie di politiche degli anni cinquanta e sessanta. È importante capire questo perché la maggior parte delle persone crede che gli Indiani vivano nelle riserve. Questa mancanza di consapevolezza si riflette in una mancanza di politiche adeguate nelle città. Quindi con la comunità nativa di Denver stiamo cercando di capire com’è la vita delle persone che arrivano da una cultura strettamente legata all’ambiente e alla natura, cosa significa mantenere questa cultura quando vivi in una metropoli americana.

Questo mi porta a rispondere alla tua domanda relativa a dove cade il mio sguardo. Mi interessa poco concentrarmi sul passato se non utilizzarlo per contestualizzare la situazione presente. Sono molto più interessata ai punti di intersezione tra il passato inteso come cultura e tradizione e la cultura moderna. La cultura nativa non è morta, è in evoluzione. Se continuiamo a pensare ai nativi come figure avvolte in coperte che parlano con il vento e gli alberi nel deserto, allora si, è qualcosa di morto. C’è una continua evoluzione, un adattarsi all’ambiente moderno. Nonostante siano insegnamenti antichissimi, sono ancora assolutamente validi per la vita del ventunesimo secolo.

Negli anni sessanta nel Regno Unito si è diffusa la sottocultura Mod, abbreviazione di Modernism che si rifà ai fan del modern jazz. Cosa volevi indagare nella serie di ritratti “Modern Couples”?
La cultura Mod è molto inglese ma si è diffusa anche in altri paesi. È nata nel secondo dopo guerra in contrasto con l’americanizzazione dell’Europa per cui da un lato c’era la cultura degli hippy e del rock and roll e dall’altro questa sub cultura con i vestiti di sartoria, la Vespa. In quel lavoro ho utilizzato la subcultura come recinto, come un’area in cui guardare un’altra cosa. È vero che quel progetto è una documentazione delle coppie mod, per cui le immagini visivamente sono molto attraenti e spiazzanti, non sai se sono state scattate adesso o negli anni sessanta. Mi affascinava e mi piaceva raccontare il loro mondo.

Però quel progetto mi serviva per raccontare l’identità di coppia, in che modo, quando sei in una relazione, le due identità si mischiano dissolvendo i confini. Non percepisci due persone separate, ma un’entità unica.
Li ho fotografati raccontando un po’ la loro storia, lasciandoli vestire come volevano in un posto che per loro era significativo. Quando ero con loro cercavo di fare in modo che si sentissero a disagio parlando poco. Volevo portarli in una situazione in cui esprimessero il loro rapporto. Il modo in cui una ragazza si appoggia al braccio dell’altro o la direzione in cui mette i piedi, come si siede su una sedia, questo linguaggio del corpo mi raccontava la storia di quella coppia.

Dopo aver incontrato la prima coppia, Amanda e John, e aver visionato il provino, ho iniziato a pormi moltissime domande, se l’essere mod avesse determinato la coppia oppure se uno dei due avesse influenzato l’altro, ad esempio. Ho capito che era più interessante concentrarmi sulle coppie.

In generale il tuo stile è molto lontano dalla definizione di “scatto rubato”. Si percepisce la progettualità, l’estrema cura e soprattutto emerge la relazione con il tuo soggetto.
Questa è la chiave della fotografia di ritratto. La fotografia di ritratto richiede capacità relazionale, è legata a come tu sai gestire le persone. Entra in gioco tutta la dinamica complicata della ritrattistica per cui stai fotografando te stesso in forma di un’altra persona. C’è sempre parte dell’autore. Non possiamo essere così arroganti da pensare che una fotografia possa rappresentare una persona che conosciamo molto poco. Il mio approccio rispetto alle persone che fotografo dipende molto da quello che voglio generare in loro. Non sto parlando di autori come Bruce Gilden che crea una reazione da una distanza ravvicinata. Quello che a me interessa del ritratto è creare una sorta di collaborazione. Per quanto io sono presente nel ritratto, voglio che le persone che fotografo si vedano in qualche modo rappresentate nella fotografia, che siano contente di quella fotografia. Quando desiderano avere una copia di una foto che li ritrae è il miglior commento che io possa ricevere. Quando mi dicono che la foto a loro non piace, io non la uso anche se magari ho un’opinione differente. È fondamentale che ci sia consenso dall’altra parte. Per tanti decenni c’è stato molto disequilibrio da questo punto di vista. Era più un prendere e non un dare.

Con le coppie mod a volte cercavo di creare un minimo di disagio attraverso il silenzio per fare in modo che loro si sentissero più uniti.
Creando una distanza fra me e loro creavo una vicinanza tra loro due. Invece con i nativi, tenendo presente che la fotografia ha abusato della loro storia, creavo una situazione dove la persona si sentiva a suo agio in uno spazio sicuro in cui si sentiva libera di condividere la propria storia.
La fotografia è una pratica molto invasiva, c’è una relazione di potere molto forte tra il fotografo e il fotografato. Per me è molto importante cercare di annullare queste dinamiche di potere e far sentire che siamo allo stesso livello e stiamo facendo qualcosa insieme.
Torniamo al punto di partenza, a Carlotta. Tu sei originaria del Piemonte, sei partita giovanissima, nel 2001, per Città del Messico, sei stata a Buenos Aires e successivamente a Londra dove vivi ormai da molti anni.
In questo tuo andare c’è stato più coraggio, determinazione o incoscienza?
Sicuramente c’è dell’incoscienza. Io lo dico spesso ai miei studenti all’università o quando faccio mentoring. Bisogna accettare il fatto che la realtà del freelance è assolutamente insicura dove non puoi pensare troppo a cosa potrebbe succedere se tu dovessi fallire. Facendo il freelance, facendo una professione artistica ci sono più fallimenti che successi. Se hai paura di fallire, di non farcela, non riuscirai mai avere quei piccoli successi.
Forse si tratta di avere più fiducia e non pensare troppo alle conseguenze negative. Certo dobbiamo pagare tutti l’affitto, però per fare questo lavoro ci vuole un’attitudine quasi di disperazione. In fondo sai che se non fai questo non potresti fare nient’altro perché saresti mille volte più infelice anche con un lavoro più stabile.
La fotografia per me è uno strumento per conoscere qualcosa di più del mondo e delle persone, posso entrare in realtà che diversamente non sarei in grado di raggiungere. Ad esempio, sono stata a Tokyo per realizzare una serie sugli escort.

Sarebbe difficile entrare in queste storie se non sei un fotografo. Questa passione deve essere più forte di tutte le preoccupazioni, devi essere capace di vivere costantemente nell’incertezza.
Valeria Valli