Chiara Leone nasce a Basilea nel 1981. Le sue origini calabresi la riportano presto in Calabria, terra a cui sente di appartenere e per cui si impegna, ancora giovanissima, come Vice Sindaco con delega alla cultura e all’istruzione, dopo la laurea in Conservazione dei Beni Culturali. Si trasferisce a Roma per alcuni anni, ma non mette radici.
Le sue fotografie sono state esposte in diverse gallerie italiane, in una mostra collettiva a Parigi e una personale in Germania.
Chiara oggi ti ritroviamo a Milano dopo la Calabria e Roma. Come, quando e dove è nata la tua storia personale della fotografia?
Mi hai inquadrata. Io sono molto nomade. Non riesco a stare troppo ferma nello stesso posto, anche quando abito per pochi mesi in una nuova città.
Ho sempre questa necessità di muovermi. Mi definirei una persona estremamente cinetica, non riesco davvero a stare immobile. Mi sembra di perdere tempo che in fondo è l’unica cosa che abbiamo.
In realtà l’incontro con la fotografia risale a quasi dieci anni fa quando vivevo a Roma. È stato un incontro casuale. In quel periodo frequentavo una persona che si occupava di fotografia e cinema in particolare. Ho iniziato a sperimentare prima con una macchina digitale e successivamente, dopo quattro o cinque anni, sono passata all’analogico.

Cosa ti ha portato a fare questa scelta? Il solo bisogno di sperimentare o un’altra esigenza?
Con il senno del poi posso dire che questo cambiamento è stato estremamente funzionale al mio percorso. È vero che la macchina fotografica è un mezzo e se si ha qualcosa da dire si riesce a raccontare a prescindere, però con il digitale ballavo intorno alla situazione, perdevo di vista il punto, il centro del mio racconto. Non ero mai completamente soddisfatta. Non che adesso lo sia, ma riesco in qualche modo ad avvicinarmi perché la pellicola mi ha educata a pensare.
Anche a scegliere?
Assolutamente sì perché la finitezza del supporto ti impone necessariamente di pensare, di capire cosa puoi portare a casa e restituire. Questo passaggio è stato importante per me, anche se non ho abbandonato completamente il digitale. C’è stato un periodo in cui scattavo solo in analogico. Ora i due mezzi viaggiano parallelamente.
A breve, in aprile, per Psicograficieditore ,uscirà una tua monografia dal titolo “Il Corpo Inatteso” in cui ti sei concentrata sul mondo femminile, recuperando anche un femminile antico.
Mi incuriosisce innanzitutto il titolo.
È inatteso perché quella è la sua funzione. Il corpo ti dice cose che non ti aspetti. Apparteniamo a una cultura che tende a separare l’anima dal corpo. In realtà le prime emozioni le sperimentiamo proprio attraverso il corpo, quando siamo innamorati, quando viviamo una situazione di stress, di ansia, di panico. È lo strumento che ci permette di esperire le emozioni. In qualche modo diventa anche lo strumento per raccontare quello che avviene dentro di noi, la nostra anima, i nostri sentimenti, le nostre propensioni, le nostre miserie.

Hai fotografato solo donne. Chi sono queste donne, come le hai scelte?
Non le ho scelte. Se è stata una scelta, è stata inconsapevole. Sono tutte donne con cui ho stretto dei legami, donne che frequento, con cui successivamente nasce in alcuni casi anche una relazione amicale. Alcune volte vado io verso di loro. Altre sono loro a cercarmi. In ogni caso è sempre un’esperienza che mi ha permesso di diventare più sensibile rispetto al tema della sorellanza che io intendo come il fare quadrato intorno a un’altra donna. Non è così scontato. È un’esperienza che credo mi abbia migliorata molto come donna.

Osservando le tue fotografie, ho notato la prevalenza di due colori, il rosso e il verde. Inoltre racconti la donna stando lontana da ogni ostentazione del suo corpo, dalla seduzione. C’è un nascondere per svelare. Hanno bisogno di protezione questi corpi, queste donne?
Si, c’è sempre questa tensione di fondo, più ci si nasconde, più si rivela agli altri. Utilizzo il colore e il corpo come strumento per questo disvelamento. Cerco di eliminare il volto, mai quasi presente, perché se non lo facessi l’osservatore si concentrerebbe su quello.

Quanto sei legata alla ricerca del femminino?
Ho letto diversi libri, uno in particolare mi ha segnato, anzi credo proprio che questo lavoro nasca da quel libro, “Donne che corrono con i lupi” di Clarissa Pinkola Estés. C’è in quel libro la ricerca dell’archetipo femminile, della vecchia che è dentro a ognuno di noi che ci guarda alle spalle. Fa riferimento al nostro istinto, al nostro intuito. È un testo che dovrebbero leggere tutte le donne.

Io però non vorrei correre, vorrei semplicemente stare nel momento. Io che sono estremamente cinetica, come ti dicevo all’inizio, sono stata educata dall’analogico alla pazienza, al saper aspettare.
Per il tuo account Instagram hai scelto questa frase: “No, non voglio essere una delle vostre donne confezionate con il cellophane”. Come si lega questa frase al tuo scavo del mondo femminile?
È una citazione tratta dal libro di Alois Prinz “Disoccupate le strade dai sogni” di Ulrike Meinhof. Lei è stata una giornalista e una terrorista. Viviamo in una società di tipo patriarcale per cui certi modelli ci vengono imposti dall’alto. Quello che cerco di fare è scardinare questo tipo di imposizione. Da lì nasce la scelta di portare quella frase come biografia della mia galleria Instagram dove pubblico i miei lavori.
“Mi salvano i riti notturni,
il vino rosso, i libri,
le parole.”
Questa sono i versi di una poesia che hai pubblicato inserendo, attraverso la presenza di due oggetti, ancora una volta il verde e il rosso. Il tuo mondo è fatto di poesia e fotografia?
Io credo che il mio lavoro viaggi parallelamente alla quantità di poesia che leggo. C’è stato un periodo in cui scrivevo anche parecchio. È un’arte talmente nobile che può esercitarla solo chi ne ha le doti per cui ho smesso e ho iniziato a leggerne tantissima. Penso che alla fine la poesia sia un completamento della fotografia, anzi la preceda perché la poesia ci regala tantissime immagini. È una fotografia creata attraverso le parole. La poesia rivela, la fotografia invece deve produrre dei dubbi. Quando mi è capitato di mostrare delle foto e mi è stato detto che una mia fotografia inquieta, lì capisco di aver raggiunto il mio obiettivo. Non mi interessa raccontare tutto, mi interessa raccontare il sospeso, lasciare una domanda.
Account Instagram: https://instagram.com/conesenzasigaro?igshid=YmMyMTA2M2Y
Valeria Valli