“Lee Jeffries. Portraits. L’anima oltre l’immagine”

“Mio povero vecchio 
che in questa notte nebbiosa d’inverno, 
sotto il freddo atroce, 
dormi sotto il portico della grande piazza”  

Questo è l’incipit della poesia scritta da Cesare Pavese nell’inverno del 1927 contenuta nella raccolta “Rinascita “del 1925-1927. 

Il poeta, tracciando un parallelismo tra un senzatetto e sé stesso, prende coscienza del gelo del mondo in cui entrambi si trovano avvolti. Quest’uomo non ha nome, non ha volto. Forse uno sguardo casuale tra i due disvela un riconoscimento.  

Un incontro, altrettanto casuale, con una homeless dà inizio alla carriera di fotografo di Lee Jeffries e alla sua capacità di restituire dignità proprio attraverso i volti. 

Nel 2008 infatti Lee Jeffries scatta una fotografia a questa ragazza che sedeva all’ingresso di un negozio. Redarguito per non averle chiesto il permesso, Jeffries si trattiene a parlare con lei, tentando di stabilire uno scambio che andasse oltre la semplice curiosità, che fosse un tocco nel profondo dell’animo della persona che aveva di fronte. 

Il Museo Diocesano Carlo Maria Martini di Milano ospita dal 27 gennaio al 16 aprile 2023 la personale “Lee Jeffries. Portraits. L’anima oltre l’immagine.” 

Il percorso espositivo si snoda in maniera fluida alternando immagini di grande formato a gruppi di dimensione minore. Due ritratti dal sorriso accogliente accolgono il visitatore. Non ci sono pannelli per non distogliere l’attenzioni dai volti, tuttavia sotto alcuni ritratti è possibile inquadrare un codice QR che permette di aprire un testo contenente la storia in inglese della persona fotografata. 

Le fotografie di Jeffries sono estremamente contrastate su sfondo scuro, quasi in maniera esasperata, come per far emergere quei volti dimenticati dal buio dell’indifferenza, decontestualizzandoli.

Abbiamo raggiunto le due curatrici Barbara Silbe, giornalista e Nadia Righi, direttrice del museo.  

Barbara Silbe, come e quando è nato il progetto di questa mostra? 

L’idea di questa mostra risale a quasi quattro anni fa. Con Lee ho rapporti di lavoro e di amicizia da quando ho fondato la mia rivista “EyesOpen!”. Già da qualche anno infatti dava vita a lavori sconvolgenti e realizzava ritratti ai senza tetto. Mi regalò la copertina del numero zero della rivista. Non so se ricordi quella signora anziana appartenente alla borghesia inglese di nome June. Il suo ritratto mi colpì molto. Noi volevamo parlare di bellezza, di bellezza non convenzionale. Quella foto suscitò scalpore, realizzammo un’intervista con Lee rimanendo da quel momento sempre in contatto. Ho sempre avuto il sogno di portarlo in Italia. Lui nel frattempo è cresciuto moltissimo, ha esposto a Roma. Alla fine ci siamo riusciti. Sai bene quali siano i costi e le difficoltà di oggi nel produrre in Italia una mostra.  

Io e Nadia Righi, ci siamo occupate di ogni aspetto a partire dal fundraising e dalla ricerca di sponsor e aziende che credessero nel progetto.  

Nadia Righi questa è la prima mostra prodotta interamente da voi? 

A livello di mostra di fotografia sì. Abbiamo scelto le immagini, le abbiamo stampate, abbiamo seguito la produzione grazie anche al contributo di Epson che è il nostro sponsor tecnico. Siamo stati sostenuti da Unicredit, Luchi Collection, Erco. In questo modo siamo riusciti a realizzare quello che per noi era un sogno. Barbara Silbe mi ha proposto questo autore durante i lockdown mentre ragionavamo in merito all’opportunità di fare qualcosa insieme. Mi era stato mandato il catalogo e me ne sono innamorata sia per il tema sia per l’approccio. Ci tenevamo moltissimo ma sapevamo che senza sostegno non sarebbe stato possibile. È stato stimolante lavorare con Barbara e con Jeffries che ha approvato tutte le nostre scelte, ha visonato tutte le prove di stampa, abbiamo incorniciato le opere come voleva lui con la cornice all’americana. È stato un lungo lavoro, affascinante. 

©Lee Jeffries

Barbara Silbe come si inserisce questa mostra con il luogo che la ospita? 

Il Museo Diocesano ultimamente sulla fotografia ha aperto un varco. Ci sono molte similitudini nel lavoro di Lee con la pittura antica. Ci sono sue fotografie che hanno una luce caravaggesca. Il contatto che lui cerca con il suo personaggio, quel senso di comunione, quella capacità di cogliere uno sguardo rivelatore senza invasività, ecco questo momento che Lee Jeffries cerca mi fa pensare a Michelangelo quando nel Giudizio Universale le due dita si sfiorano ma ancora non si toccano. Io vedo quello nelle foto di Lee. 

©Lee Jeffries

Nadia Righi, perché da qualche anno avete deciso di ospitare mostre di fotografia voi che siete un luogo deputato al sacro? 

Quando abbiamo iniziato a proporre le mostre estive nel 2017 l’obiettivo era cercare di intercettare un pubblico diverso perché il nostro “problema” è chiamarci Museo Diocesano. Ci siamo resi conto che nel periodo estivo il nostro pubblico istituzionale cioè gruppi parrocchiali, scuole e visitatori un po’ agée frequentano meno il museo. Abbiamo provato a interessare i visitatori individuali organizzando una serie di iniziative espositive in cui il tema è apparentemente molto laico, parliamo infatti di grandi fotografi, ma la lettura offerta è comunque uno sguardo sull’umano che è ciò che a noi interessa. Nello specifico riguardo a questa mostra non solo Lee Jeffries ha una grande spiritualità, ma il suo progetto è molto legato all’identità del museo. È un lavoro sugli homeless ma in generale sulle persone con cui cerca sempre di entrare in rapporto. Osservando queste immagini mi colpisce moltissimo non solo l’invito a imparare a guardare gli invisibili in una società come la nostra, in un periodo di grave crisi post pandemia, ma, sapendo come Lee li ha conosciuti, amati, abbracciati, anche la scoperta di ciò che tutti desiderano. Mi tornano in mente le parole di Papa Francesco riguardo all’entrare in rapporto. Scrutare questi volti significa chiedersi cosa desidero io. In fondo all’animo umano c’è un desiderio di bellezza, di felicità, di infinito, di qualcuno che ti abbracci e che ti voglia bene. Questo è il grande messaggio del progetto di Jeffries. 

©Lee Jeffries

Barbara Silbe quale è stato il fil rouge che ha portato alla selezione dei cinquanta ritratti in bianco e nero e a colori in mostra? 

Abbiamo lavorato sull’archivio di Lee sia scegliendo quelle fotografie che secondo noi erano emotivamente più interessanti sia tenendo molto ben presente che il tema del suo lavoro è raccontare i senzatetto provando a restituire loro dignità. Molti fotografi fanno foto ai senzatetto, spesso però sono foto rubate realizzate con il teleobiettivo. Lee dedica settimane a queste persone. Non è certamente facile convincerli a farsi fotografare in maniera così diretta. Spesso si ribellano a questi tentativi rispondendo con aggressività. Il suo lavoro è molto empatico, va in profondità. Li conosce per nome, conosce i loro problemi, le loro storie. La fotografia è l’ultimo step del rapporto che instaura con loro. Il suo intento è stabilire una comunicazione e realizzare un ritratto che restituisca un volto, una dignità.

Non ha inventato nulla di nuovo ma è il senso dell’umanità che lo contraddistingue. 

Valeria Valli 

Museo Diocesano Carlo Maria Martini, piazza Sant’Eustorgio,3 

martedì-domenica, 10-18;  

www.chiostrisanteustorgio.it