Questo prolungato periodo di solitudine forzata, conseguenza dell’emergenza sanitaria in corso, ha messo nelle condizioni molti fotografi ed artisti di misurarsi con la propria creatività. Lasciando da parte i pochi (s)fortunati professionisti che hanno ricevuto incarichi e commissioni, che lavorano direttamente sul campo, gli altri non hanno possibilità di documentare questo particolare momento. Dobbiamo restare a casa.
Ma è necessaria un’opera di testimonianza, che avvenga con interpretazioni e sguardi diversi, che siano essi professionisti o meno.
Ecco allora che i lavori di documentazione della pandemia si trasferiscono fra le mura domestiche, con il fiorire di racconti e diari che a volte riescono nell’arduo compito di restituire un valido testamento visivo. Ma la domanda che nasce spontanea è: quale effetto faranno questi stessi lavori, fra molti anni, allo sguardo di chi non ha vissuto questo dramma?
Oltre alle categorie appena descritte c’è anche chi lavora a distanza. Tramite l’uso di materiali già disponibili in rete, come le riprese delle telecamere di sorveglianza delle città, si adottano immagini e se ne assegna loro un nuovo significato. Questo processo post-fotografico, atto artistico, sovversivo e significativo, ha una storia non certo recente ed è stato affrontato, fra gli altri, dal fotografo Joan Fontcuberta nel suo irrinunciabile “La furia delle immagini – note sulla postfotografia” che vi invito a leggere. come approfondimento.
Allo stesso modo ha lavorato il fotografo Graziano Panfili che ha prelevato immagini già esistenti e le ha tradotte con una personale interpretazione, fedele alla citazione di Godard che recita “l’immagine non appartiene a chi la fa ma a chi la usa“. Ma questo è soltanto l’ultimo dei lavori del fotografo che, grazie a questo progetto (tuttora in corso), si propone oggi alla nostra attenzione.
Qual è la tua personale storia della fotografia?
Ho conosciuto la fotografia molto tardi, a circa 33 anni. Vengo dall’illustrazione e fumetto, disegnavo anche favole per bambini. Ho iniziato questo hobby per caso, volevo fare qualcosa di nuovo. Ho frequentato un’associazione amatoriale. Qualche mese dopo ho capito che non mi bastava, così mi sono iscritto ad una scuola di reportage a Roma e, da lì, non mi sono più fermato.
Partiamo dal tuo ultimo lavoro in ordine cronologico, CORONAVIRUS: postcards from Italian webcams, progetto che è stato pubblicato sul Financial Times. Hai utilizzato l’isolamento in modo intelligente, hai interrogato 18 webcams poste in luoghi italiani ed hai successivamente rielaborato una settimana intera di frame. Da fotografo hai dimostrato che si può essere creativi da casa, senza scattare, e che si può utilizzare qualsiasi mezzo per parlare della propria situazione. Non cronaca ma documentazione autoriale del proprio sentire.
Come è nata questa tua idea e come l’hai sviluppata?
Erano già giorni che mi trovavo chiuso in casa, avevo l’esigenza di comunicare, non solo il mio stato d’animo, ma anche cosa stava succedendo in Italia in questo particolare momento storico. Stavo leggendo un libro di Sthephen King, (L’istituto) in cui si parla di “controllo”. Quindi, ho iniziato a cercare le webcams sul territorio italiano e da lì per una settimana, a diverse ore del giorno e della notte, ho iniziato a controllare delle zone ed ho cominciato a fotografare. Controllavo e fermavo dei frame, ma in mente già avevo cominciato ad immaginare il progetto: il formato quadrato per togliere scritte e pubblicità dalle webcams e dare un senso di claustrofobia; il bianco e nero per enfatizzare la notte, la desolazione, l’orologio lento, il mio stato d’animo.




La caratteristica che unisce gran molti tuoi lavori è la particolare attenzione verso la luce, a volte cinematografica, a volte tagliente, altre tenue. Ma indubbiamente protagonista e portale attraverso la quale ci si dirige verso la narrazione della scena. Quanto è importante il legame fra luce, soggetto e intenzioni del fotografo, e come riesci a legare questi elementi?
La luce è un fattore che non può mancare nella mia fotografia; la padronanza di questa mi aiuta a rappresentare ciò che voglio esprimere. Sulla base della mia formazione artistica, faccio riferimento ai pittori, pensando alla gestione della luce, per esempio, di Caravaggio oppure Edward Hopper. Mi piace molto sperimentare, usare la luce continua e i flash oppure una luce naturale specchiata. Insomma, prediligo la ricerca e non do niente per scontato.


Parte del tuo lavoro è dedicata alla produzioni di immagini per le copertine di libri e cd musicali. Quali sono le dinamiche in questo particolare settore? Quanto è importante conoscere le poetiche degli autori e i contenuti che andrai ad illustrare. Come riesci a stabilire una continuità creativa coerente?
Fortunatamente leggo molto, questo fa sì che le mie foto sono già impastate dalle parole e dalle atmosfere che ho assimilato. Quello che viene fuori è un riassunto di 300 pagine in uno scatto. Il settore è complesso, ci sono arrivato da Instagram, mi hanno contattato per una prima copertina e da lì ho continuato; è una cosa che mi piace molto poiché amo i libri. Tra l’altro, in questi giorni, Mondadori sta facendo uscire altre nuove copertine.


Il tuo delicato e intimo progetto, omaggio ai quarant’anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini, ha ricevuto il patrocinio del Ministero dei beni culturali. La fotografia dimostra che il suo statuto di memoria può essere ancora valido e rilevante, anche smarcato dal tempo e dallo spazio, ma fortemente collegato a livello intellettivo. Come hai lavorato su questo progetto e con quali scopi?
Pier Paolo Pasolini rappresenta la politica, la società, la letteratura di un contesto che non ho vissuto ma che amo molto. Un artista controverso, che trovo geniale e completo sotto tanti punti di vista. Il mio intento era quello di ricercare, attraverso delle polaroid originali degli anni 70, le atmosfere di quegli anni creando un legame iconografico tra lo scatto unico e l’irripetibilità dello stesso, proprio come è la figura di Pier Paolo Pasolini. è stato un lavoro difficilissimo: la polaroid come camera non è facile da gestire, le pellicole erano tutte scadute ed ogni foto era una scommessa!



Sei uno dei fondatori di ULIXES – Photoresearch & Documentation, ci vuoi descrivere questo collettivo e di cosa vi occupate?
Ulixes nasce dopo la chiusura dell’agenzia OnoffPicture. Siamo un collettivo di fotografi e amici molto liberi e svincolati dalle classiche dinamiche di agenzia. Ci occupiamo di documentazione a lungo termine. In questo ultimo periodo stiamo lavorando per documentare la situazione legata al Covid-19.
In quale modo la fotografia può oggi dare il proprio contributo a capire di più la società e a capire di più noi stessi?
La fotografia è quello che vivi, è una canzone, è tua ma rispecchia anche la vita degli altri; se questa cosa succede, allora, stai parlando una lingua che non ha bisogno di traduzioni. Una bella fotografia racconta dall’Italia al Sud America senza spiegazioni.
Ma soprattutto racconta la tua visione e i tuoi sentimenti.
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Mirko Bonfanti