Come in uno specchio. Una mostra celebra i novant’anni di Gianni Berengo Gardin

L’emergenza sanitaria attualmente in corso riguarda ognuno di noi e non ha avuto rispetto per nessuno. Nemmeno per l’omaggio che la città di Milano ha dedicato al novantesimo compleanno di un grande maestro della fotografia.
Mi riferisco alla mostra di Gianni Berengo GardinCome in uno specchio: fotografie con testi d’autore“, inaugurata l’11 febbraio presso Forma Meravigli, programmata fino al 5 aprile, ma temporaneamente sospesa.

Mostra “Come in uno specchio: fotografie con testi d’autore” – Forma Meravigli, Milano © Mirko Bonfanti

Ligure di nascita (Santa Margherita Ligure, 1930) ma milanese d’adozione, è stato capace di raccontare l’evoluzione della società e del paesaggio italiano dal dopoguerra fino ai giorni nostri. Berengo Gardin è un fotografo eclettico, molto apprezzato anche fuori dai confini nazionali. Non di rado viene accostato ad Henri Cartier-Bresson per la poetica della sua fotografia. Si è dedicato principalmente alla fotografia di reportage, all’indagine sociale, al mondo del lavoro, alla documentazione di architettura ed al paesaggio, raccontando la società con gli occhi di un artigiano votato all’impegno sociale.

Bacino San Marco, visto da via Garibaldi. Venezia, 2013-2015 © Gianni Berengo Gardin/Courtesy Fondazione Forma

Felice e conciso, il testo introduttivo della mostra sintetizza perfettamente l’attività del fotografo: “Attraverso un gioco di luci e ombre e di riflesso e rimando continuo tra l’occhio del fotografo e la realtà immortalata dalla sua Leica, le fotografie di Gianni Berengo Gardin hanno raccontato un’epoca, accompagnato e a volte costruito una visione“.

Fervido sostenitore della fotografia analogica, chiama “Vera Fotografia” soltanto quella fatta in pellicola, ed appone come firma sul retro delle sue stampe originali proprio questa dicitura a rimarcare un distacco dal mondo digitale.
In più di sessant’anni di carriera ha pubblicato oltre 250 libri fotografici e ha esposto in oltre 300 mostre fra le quali al Museum of Modern Art di New York, alla George Eastman House di Rochester, alla Biblioteca Nazionale di Parigi, agli Incontri Internazionali di Arles, alMois de la Photo di Parigi. Nel 1994 ha vinto il Leica Oskar Barnack Award, nel 2008 il Lucie Award alla carriera e nel 2008 l‘Università Statale di Milano gli ha conferita la laurea honoris causa in Storia e critica dell’arte.

Milano, 1986 © Gianni Berengo Gardin/Courtesy Fondazione Forma

Tra i progetti più importanti di Gianni Berengo Gardin, trova senza dubbio posto quello realizzato all’interno dei manicomi italiani negli anni Settanta, prima della legge Basaglia. Con estrema durezza e asprezza, portò alla luce le condizioni disumane in cui gravavano le strutture di sanità mentale, ciò che tutti immaginavano ma non avevano ancora visto. 

Così scrive di lui lo storico della fotografia Italo Zannier: “Con la sua capacità di visualizzazione, spesso virtuosistica e sempre aggiornata nei confronti dell’evoluzione della cultura fotografica mondiale, Berengo Gardin è, a mio avviso, il fotografo italiano più ragguardevole del dopoguerra. Quello che meglio ha saputo mediare proficuamente le varie tendenze, con un acume visivo che non si è lasciato condizionare troppo dal gusto del momento, slittando subito oltre la moda, per cercare garanzie soprattutto nella chiarezza dello sguardo

Trento, Campi nomadi, 1985 © Gianni Berengo Gardin/Courtesy Fondazione Forma

Facile perciò immaginare quanto la vita di Gianni Berengo Gardin sia stata ricca di incontri. Ed è proprio da questo florido intreccio di conoscenze che ha origine il progetto espositivo prodotto da Contrasto, in collaborazione con Fondazione Forma per la Fotografia. Ventiquattro delle più famose ed importanti immagini di Gianni Berengo Gardin, estratte da un monumentale archivio (più di un milione e mezzo di scatti!), sono state scelte e commentate da altrettanti protagonisti dell’arte e della cultura. Amici, intellettuali, colleghi, artisti, giornalisti, registi, architetti, hanno accostato i loro testi a ciascuna delle foto selezionate, permettendo di avviare una riflessione attorno al valore di testimonianza sociale ed estetica delle immagini.

I testi sono di registi quali Marco Bellocchio, Alina Marazzi, Franco Maresco e Carlo Verdone, architetti come Stefano Boeri, Renzo Piano e Vittorio Gregotti, artisti come Mimmo Paladino, Alfredo Pirri, Jannis Kounellis; e poi della critica d’arte Lea Vergine e dello scrittore e critico Goffredo Fofi, del sociologo Domenico De Masi, di un giovane fotografo come Luca Nizzoli Toetti o di grandi maestri come Ferdinando Scianna e Sebastião Salgado. Di scrittori come Maurizio Maggiani e Roberto Cotroneo, di giornalisti come Mario Calabresi, Michele Smargiassi e Giovanna Calvenzi, di Peppe Dell’Acqua, psichiatra dell’equipe di Franco Basaglia, di Marco Magnifico, vicepresidente del FAI e di una street artist come Alice Pasquini.

Di seguito riportiamo una selezione dei testi a nostro avviso più interessanti ed in linea con la visione fotografica di Gianni Berengo Gardin, partendo proprio dall’immagine che apre l’esposizione e che il maestro reputa la più bella che abbia mai realizzato.

Venezia, 1960. In vaporetto © Gianni Berengo Gardin/Courtesy Fondazione Forma

Caro Gianni, Come in uno specchio… Quanto lontana sembra questa tua fotografia dell’enigma di Bergman. Questo è una foto “semplice”, sono i volti riflessi, umanamente densi di vissuto antico e faticoso. Li abbiamo incontrati nelle città del Nord Italia in anni lontani, ma ripetuti oggi in altri volti differenti ma identici nello spaesamento di terre lontane. L’uomo che ascolta, l’uomo di spalle magrittiano, l’uomo col bambino, l’uomo buono severo, l’uomo che ha imparato il vivere della città. È una fotografia che nella nebbia, con un sapiente gioco di specchi, cerca di catturare un raggio di sole
Mimmo Paladino – Artista

Istituto psichiatrico. Parma, 1968 © Gianni Berengo Gardin/Courtesy Fondazione Forma

L’immutabilità dell’esperienza dello spazio manicomiale costringe gli internati a difficili esercizi di riduzione di sé, di sottomissione all’istituzione in un tentativo di sopravvivenza per salvaguardare al proprio interno almeno un brandello della propria dimensione umana. Devono accettare quell’unica e piatta identità. Qual cosa sta per accadere. L’obiettivo svela una presenza fino a quell’istante negata e inconsapevolmente restituisce tensioni, conflitti e accadimenti che sono nell’aria, dentro e fuori quel luogo. I segni oggettivi del manicomio, il taglio dei capelli, le giacche sempre troppo larghe o troppo strette, le camicie senza collo appaiono in tutta la loro drammaticità nel contrasto con gli sguardi, che non solo testimoniano la resistenza dell’umano ma anche cominciano a far emergere le singolari identità perdute.
Peppe Dell’Acqua – Psichiatra

Gran Bretagna, 1977 © Gianni Berengo Gardin/Courtesy Fondazione Forma

Questa coppia vista di spalle dentro una macchina decappottabile che contempla il mare e un cielo tempestoso è stata fotografata anni prima di quegli altri personaggi che dentro una macchina coperta hanno prodotto una delle immagini icona di Berengo Gardin? Oppure magari anni dopo? Sono gli stessi che poi sono invecchiati, o sono i loro figli improbabili che borgesianamente ripetono un gesto, una situazione, un senti mento della vita, perché il fotografo possa proporre una variazione su un’immagine che sembra contraddire il fluire del tempo?
In verità Berengo ci informa che la fotografia con la macchina decappottabile è stata fatta sedici anni dopo di quella inglese e che il luogo è la Normandia. Ma le due immagini, nella loro leggermente allucinatoria apparenza di ripetizione, si propongono come autentica meditazione sull’essenza della fotografia, sull’impossibilità della ripetizione identica di un istante nell’infinita molteplicità della vita.
Se riuscisse a fare due volte nella vita la stessa identica foto, il fotografo sarebbe Dio. Non pretendiamo tanto, vero Gianni?
E poi, se questa impossibile, allucinata eventualità fosse possibile, come nell’eterno ritorno di Vico o di Nietzsche, a quel punto non avrebbe forse più senso l’inseguimento ossessivo, in Berengo Gardin da oltre mezzo secolo inesausto, per riconoscere, nell’infinita variazione, altri, simili-diversi istanti che tentino di cogliere un frammento di significato del mondo, e dei frammenti di risposte, mai risolutive, che il fotografo propone dare alle domande che pone la vita. Grazie al cielo, invece, ogni giorno il gioco ricomincia, il gioco non ha fine.
Ferdinando Scianna – Fotografo

Venezia, 1959. Piazza San Marco © Gianni Berengo Gardin/Courtesy Fondazione Forma

50 mm – F5,6 – 1/30. Un bacio dura il tempo di dare e ricevere amore. Lo scatto fotografico pratica lo stesso desiderio e il medesimo tempo, quello adatto per usare un diaframma ab bastanza stretto da ottenere una prospettiva nitida e profonda come il legame che unisce i soggetti Fotografati. Loro sono al centro di un’architettura luminosa, anche se la prospettiva ce la fa apparire compatta come un muro continuo. Sono fermi, bloccati nel loro tempo metafisico, al centro di una galleria al fondo della quale la luce splende come la speranza in un futuro felice. Sulle loro feste, però, pendono minacciosamente delle lampade, sembrano bombe pronte a cadere per poi esplodere polverizzando in un tempo rapidissimo quell’amore apparentemente eterno
Invece, la fotografia ne impedisce lo scoppio e la conseguente frantumazione della scena in milioni di schegge temporali e spaziali prive di senso e di storia. L’immagine fotografica bacia la realtà infondendole la vita rendendoci partecipi della sua verità immutabilmente viva, energicamente eterna.
Alfredo Pirri – Artista

Oriolo Romano, Lazio, 1965 © Gianni Berengo Gardin/Courtesy Fondazione Forma

C’è qualcosa da guardare lì davanti, qualche cosa che passa, ma passa lenta, silenziosa, che non c’è fretta, che si può star comodi, seduti sui gradini o sulla scranna impagliata o appoggiati alla soglia. C’è qualche cosa che passa, nella domenica del villaggio, forse una processione, forse lo struscio, forse solo il tempo. Ma è una cosa che vale la pena guardare, proprio perché passa e dopo non ci sarà più e allora te la sarai persa, mentre se la guardi non è più persa, è vista.
C’è sempre qualche cosa da guardare, sono le generazioni degli umani, qui ci sono quasi tutte, sugli spalti come di un teatro greco, sul fondale ad archi della storia. C’è qualche cosa che passa e non sono solo i grandi fatti, è la commedia umana, che anche se non fa rumore è giusto che qualcuno la guardi e la scriva in immagini e le metta da parte. C’è qualche cosa che passa, lì davanti, ed è la vita stessa.
Michele Smargiassi – Giornalista

Mirko Bonfanti