Un alfabeto visivo dei ruoli. La fotografia di Marcella Campagnano

Come scrive la storica dell’arte Carla Subrizi in Azioni che cambiano il mondo (2012), «lo sguardo non è neutro, la visione è culturale». Lo hanno capito bene quegli artisti e quelle artiste che hanno fatto propria – anche non dichiaratamente – la lezione di quella parte di linguistica per cui il dire è fare o agire, per i quali, quindi, la parola (il fare artistico, in senso più ampio) ha un aspetto performativo. Questa visione permette di considerare l’opera d’arte come una situazione: una configurazione degli eventi che ha il potenziale di inclinare lo stato delle cose nel fluire regolare. 

La pratica artistica che, in particolare dagli anni Settanta, si intreccia alle coeve teorie femministe è un perfetto esempio di arte trasformativa. Attraverso il corpo femminile, le artiste hanno lavorato al di fuori degli orizzonti tradizionali, aprendone di nuovi, mettendo in discussione specifici modi di vedere; hanno dimostrato che l’arte può divenire pratica di esperienza e di comprensione di sé e degli altri. Comprensione che passa attraverso un cambiamento, dove il sé è colto nel suo essere un soggetto in fieri, in divenire, nelle sue trasformazioni. 

Esemplare è il ruolo che ha la fotografia in questa indagine del sé, dove l’autoritratto attiva e mette in gioco la consapevolezza di sé come altro. Raffaella Perna, in Arte, fotografia e femminismo in Italia negli anni Settanta (2013), sottolinea come lo strumento fotografico riproduca lo sguardo altrui che si posa su di noi. Tuttavia, nel momento in cui ci si pone contemporaneamente davanti e dietro l’obiettivo, tale meccanismo si inverte e la fotografia diviene un mezzo di autoproiezione, attraverso il quale scegliere la veste in cui rappresentarsi agli occhi dell’altro: la domanda non è chi siamo, ma cosa siamo e come siamo diventati quello che siamo. Per la donna, da tempo oggetto dello sguardo e della rappresentazione altrui, la fotografia costituisce un’occasione per sperimentare la propria singolarità, nonché per riflettere sui ruoli che le sono stati assegnati, mettendo in mostra gli stereotipi e i modelli in cui è scritta.

Marcella Campagnano, L’invenzione del femminile: RUOLI, 1974-1980

Autoritratto fotografico e rappresentazione di genere dialogano nella serie L’invenzione del Femminile: RUOLI (1974) di Marcella Campagnano, pubblicata nel 1976 nel libro Donne Immagini (1976). L’artista, come rivela in un’intervista a Alessandra Pigliaru1, utilizza la macchina fotografica in quanto strumento più diretto e immediato che, intorno alla metà degli anni Sessanta, comincia ad usare come una scrittura, per fissare i frammenti e i luoghi dell’esperienza, compatibilmente alla sua necessità di aprirsi e dialogare con altre donne. Entra, infatti, a far parte del collettivo milanese di Via Cherubini, dove prende avvio l’idea di fotografarsi vicendevolmente e travestirsi in varie pose e ruoli stereotipati di madre, prostituta, sposa, casalinga, amante. 

Le donne che compongono questo mosaico diventano figure archetipiche, prive di ogni intenzionalità. Campagnano riflette sull’introiezione di questi ruoli, mettendo in rilievo il carattere ambiguo dell’identità come costruzione sociale, in accordo con l’idea di performatività del linguaggio e sopravvivenza linguistica espressa dalla filosofia femminista Judith Butler, per la quale il soggetto – la donna, in questo caso – è costituito entro i limiti del nome (madre, moglie, prostituta) con cui è chiamata ed esiste all’interno dell’ambito sociale.

Campagnano, per la realizzazione delle fotografie, allestisce un vero e proprio set nel soggiorno di casa sua, spostando un divanetto e appendendo al muro un pezzo di moquette. L’asettica posa fotografica è preceduta da un lungo rituale di mascheramento, in cui coinvolge le altre donne del collettivo, le quali si aiutano a vicenda ad entrare nei panni che altri le hanno cucito addosso. Accendendo semplicemente due lampade, pone uno specchio in posizione tale perché ognuna di loro possa controllare la propria immagine prima che Campagnano, con la macchina fissa sul cavalletto, scatti la foto. È importante sottolineare il suo particolare approccio al mezzo fotografico, che nell’intervista sopracitata definisce così: «Guardandole a distanza queste mie sequenze, sempre uguali, sempre diverse, sono più simili al lavoro di tessitura che non all’arco di Apollo che, come la macchina fotografica, colpisce dinamicamente da lontano. Forse mi ripeto, ma con il mio lavoro faccio della macchina fotografica un uso prevalentemente statico, il diaframma dell’apparecchio si apre e si chiude come lo sportello di un frigorifero. Ciclicità di ritmi e uso degli strumenti al femminile?».

L’alfabeto dei ruoli che Campagnano contribuisce a creare, in cui il noi non è mai universale ma sempre una relazione di unicità, è ordinato nella struttura sequenziale e nell’uso della griglia: i ritratti sono tutti a figura intera, lo sfondo e lo sguardo delle modelle sono neutri, come neutra (o addirittura vuota, inesistente) è la soggettività femminile per lo sguardo patriarcale. La struttura a griglia è parte fondamentale della lettura di quest’opera che, nel suo apparente mutismo, rivela la sua essenza fenomenologica, ovvero di fenomeno che resiste al tempo e travalica ogni confine, spaziale e temporale, parlando sempre al presente. Marcella Campagnano, oramai facente parte di quel periodo tanto complesso quanto discusso del postmodernismo, recupera la griglia dal modernismo, che ha fatto di questo dispositivo uno dei suoi miti. La storica dell’arte Rosalind Krauss dedica un importante saggio alla griglia, e ne ripercorre i poteri e le funzionalità, nonché il suo critico ruolo all’interno delle arti visive. Non è questa la sede in cui ripercorrere precisamente i passi di Krauss, ma risulta fondamentale per lo meno accennare ad alcuni aspetti importanti al fine di comprendere perché Campagnano ricorre a questo strumento all’apparenza semplice e lineare, ma intriso di implicazioni e complessità. 

La griglia diventa il luogo dell’esercizio della ripetizione, che sia quella differente del gesto, del corpo e della materia, o quella dell’indifferenza e dello svuotamento dei concetti capisaldi della modernità. La griglia è antinaturalistica, antimimentica; scrive la Krauss: «Con la bidimensionalità che risulta dalle sue coordinate, la griglia permette di respingere le dimensioni del reale e di sostituirle con il dispiegamento di un’unica dimensione.»2 

Volendo applicare questa lettura all’opera di Campagnano, risulta evidente il ribaltamento linguistico che l’artista ha operato: ha inserito il corpo delle donne, travestito ma fortemente consapevole, in un dispositivo che nella sua rigidità cerca di opporsi al reale. Il piano cartesiano che vorrebbe schiacciare il soggetto nell’oggetto, in RUOLI riesce nell’intento di fare tutto l’opposto, rendendo evidente la vacuità degli stereotipi e l’ironica opposizione ad essi. La donna, intesa dal sistema patriarcale come oggetto naturale, inscritta in un ordine proprio, definito e definitivo – quello dei ruoli di madre, moglie, prostituta – è nella griglia di Marcella Campagnano frammentata, mutante. 

La fotografia di Campagnano, nell’ironia e nell’uso strumentale di un linguaggio tradizionalmente discriminante e categorizzante, risponde a chi e non a che cosa è il soggetto. 

Luna Protasoni

Le immagini sono tratte da Google


1. Pigliaru, A., “Marcella Campagnano, fotografa”, Donne ieri oggi e domani, 22 giugno 2014 da URL: https://www.donneierioggiedomani.it/marcella-campagnano-fotografa

2. Krauss, E. R., Griglie, in Krauss E. R., L’originalità dell’avanguardia e altri miti modernisti, Roma, Fazi Editore, 2007