“Credo che le fotografie che più mi piace realizzare siano quelle legate a una idea o un progetto. Mi piace pensare che ci sia un pensiero che viene trasmesso nelle immagini”.
“La fotografia è mostrare quello che abbiamo spesso tutti sotto gli occhi con uno sguardo nuovo, uno sguardo che faccia pensare e attiri l’attenzione del pubblico” (G. Hänninen).
La fotografia – potente strumento narrativo – ha moltissime sfaccettature, che la rendono più di una semplice forma d’arte, soprattutto da parte di quegli autori che, sulla scia di Paolo Monti e Gabriele Basilico, la utilizzano anche come mezzo di indagine e ricerca, oltre che di testimonianza e documentazione: tra questi rientra Giovanni Hänninen, che ha fatto “della rappresentazione di luoghi e spazi urbani una delle sue cifre distintive”, indagando, con uno sguardo nuovo calato nel territorio, a metà tra la fotografia d’architettura e l’indagine socio-urbanistica, le criticità nelle relazioni tra uomo e architettura e le dinamiche delle trasformazioni urbane.
Classe 1976, di formazione ingegnere aerospaziale, nato ad Helsinki da madre finlandese e padre siciliano, Hänninen vive e lavora a Milano come apprezzato fotografo di paesaggio e di architettura, collabora con il Teatro della Scala ed è docente di Fotografia per l’architettura presso la Scuola di Architettura e Società del Politecnico. Negli anni ha realizzato reportages e ricerche fotografiche per importanti istituzioni pubbliche e private, italiane e straniere, vincendo numerosi premi, con lavori pubblicati su riviste nazionali e internazionali o in monografie ed esposti in mostre collettive e personali, Biennali e Triennali d’arte o di architettura, oggi facenti parte di collezioni permanenti come The Josef and Anni Albers Foundation, il Musée d’Art Contemporain Africain Al Maaden (MACAAL) di Marrakech e il Museo di Fotografia Contemporanea (MuFoco) di Sesto San Giovanni.
Per Hänninen la fotografia è un mezzo di esplorazione, documentazione e analisi delle differenti declinazioni dello spazio, sia nella morfologia che nella composizione sociale, per comprenderne le evoluzioni nel tempo, le tipicità e le prospettive future. Attraverso immagini di diverse tipologie di architetture, infrastrutture, territori o persone, che trovano “nel rigore formale e nella propensione estetica le proprie matrici”, egli cerca di svelare con punti di vista originali nuovi aspetti e dettagli di quanto osserviamo quotidianamente, descrivendo la realtà come con la “lente di uno scienziato” – mantenendo una certa distanza dall’oggetto di rappresentazione – al fine di realizzare una mappatura variegata del territorio. Le sue ricognizioni fotografiche infatti, “animate da una vocazione enciclopedica”, sono precedute da un’approfondita analisi e dall’uso di mappe, disegni e/o immagini satellitari dei luoghi oggetto di indagine, oltre che da ricognizioni sul campo.
Con progetti accomunati dalla volontà di “avvicinarsi al mondo con occhi nuovi e cercare di raccontarlo con il proprio sguardo” egli spazia dalla fotografia di architettura e di spazi urbani – con cui è stato chiamato a documentare edifici pubblici e privati, musei e teatri, rovine, cantieri o progetti di rigenerazione urbana in Italia e all’estero – a quella di infrastrutture, reti e paesaggio, fino ad arrivare al ritratto, di singoli o gruppi, sempre però con un linguaggio che esalti le qualità descrittive e documentarie del mezzo fotografico.




Uno dei suoi primi lavori è “Cittàinattesa”, realizzato in collaborazione con Alberto Amoretti per i testi e le ricerche, con cui – invitato da Gabriele Basilico – nel 2012 ha partecipato a Casa Testori alla mostra “20×20”. Qui, in seguito a un’approfondita ricerca sui luoghi riportata in lunghe didascalie che ne raccontano la storia, Hänninen ha raffigurato “pezzi di Milano dimenticati […], a volte anacronistici, che sembrano aver esaurito la loro missione, ma anche edifici che sarebbero ancora in grado di vivere e servire la cittadinanza. Non […] periferie di una città in ritirata, ma luoghi sparsi su tutto il tessuto urbano di una metropoli che sfida il cielo con nuove torri” (A. Amoretti), con immagini che non rappresentano solo fotografie di architettura, ma raccontano “un’intera storia politica e sociale”.

Inizia così un percorso di ricerca volto a “creare un atlante che usi la fotografia come strumento per l’analisi delle dinamiche della città”, con progetti come MIX CITY (2014), dove – a fianco di un gruppo multidisciplinare di ricercatori – il fotografo analizza, attraverso l’obiettivo, tre grandi progetti di riconversione di aree industriali dismesse o zone portuali caratterizzati da un mix di funzioni, popolazioni ed usi: Bicocca a Milano, Islands Brygge a Copenhagen ed HafenCity ad Amburgo.


In LAYERED MUMBAI (2018) – che sarà esposto dal 15 marzo al 27 aprile a Legnano (MI) al Festival Fotografico Europeo – Hänninen mette invece in luce la stratificazione della città, tra le più ricche al mondo ma luogo di disparità estreme, con oltre metà della popolazione concentrata in slum ad alta densità fatiscenti, costruiti senza regole e privi di servizi, mentre in LANDSCAPE of SENEGAL (2019) rende “omaggio a una più sincera e multiforme visione del Senegal”.


Dopo la morte di Basilico, nel 2017 il fotografo viene chiamato da Giovanna Calvenzi a continuare il lavoro da lui iniziato sulle città circolari – Milano, Mosca e Madrid – occupandosi di quest’ultima: ne scaturisce MADRID M30, che documenta la capitale spagnola a partire dagli oltre 30 km di questa autopista ad anello che la circonda. Questo tema lo ritroviamo in altri progetti realizzati insieme a ricercatori del Politecnico di Milano – che riprendono la traccia fissata nel 1997 da Basilico e Stefano Boeri nelle “Sezioni del paesaggio italiano”, recentemente esposte a Milano – in cui Hänninen è chiamato a dare corpo con le immagini a un’osservazione profonda del territorio attraversato da alcune autostrade per indagarne le trasformazioni passate e presenti, individuandone criticità e potenzialità per il futuro.
Tra questi in MI-BG 49 km (2015) vengono analizzati 49 km della A4 costruiti nel 1927 tra Milano e Bergamo: un “insieme anomalo di città, campagna e architettura [….] in cui i caratteri negativi prevalgono su qualunque altra cosa” (A. Ferlenga); “una sorta di città lineare” sempre più introversa che viene scomposta in elementi costitutivi, paesaggi che l’attraversano e architetture che si inseriscono in essa. Qui Hänninen propone una lettura “di segno rovesciato, [che] guarda dai bordi verso l’autostrada, li ricostruisce per frammenti” attraverso “sezioni territoriali peculiari per ruolo, disegno, consistenza storica e paesaggistica”, con “un’apparente provvisoria sospensione di giudizio, che si offre come materiale di studio per il progetto” (I. Valente).


Nel più recente “Autostrada del Brennero. Architetture e paesaggi” (2023), dedicato agli oltre 400 km dell’autostrada A22 – progetto pionieristico degli anni ’60 in cui si sperimentò il rapporto tra infrastruttura e paesaggio – Hänninen realizza invece una galleria di immagini che esplorano “l’intorno e l’interno” di un tracciato che dalla Pianura Padana risale le Alpi, costituendo un “mosaico di molteplici paesaggi che si fondono di volta in volta su un rapporto in verticale figura-sfondo, fondovalle-montagna, oppure su un rapporto in orizzontale allargato ai campi agricoli della pianura veneto-padana” (R. Bocchi).

Tra gli altri lavori del fotografo si ricordano quelli realizzati per Fondazione Dalmine, di cui abbiamo in parte già parlato, ma anche Thread (2017); Dopo/After (2018); The Missing Piece (2020); People of Tamba (2018) e People of San Berillo (2019): in questi ultimi, su modello di People of the Twentieth Century del fotografo tedesco August Sander (che negli anni Venti del Novecento realizzò un catalogo della società contemporanea attraverso una rappresentazione archetipa di soggetti ritratti per classi sociali, professioni e mestieri), Hänninen ritrae diverse tipologie di persone rispettivamente di Tambacounda, città della regione più interna e rurale del Senegal, e dello storico quartiere a luci rosse di Catania, che oggi ospita una comunità senegalese.

Ma chiediamo direttamente al fotografo i motivi e le scelte che hanno accompagnato la sua ricerca.
Da dove deriva la tua passione per la fotografia? Quando e come hai iniziato? E come si combina la tua formazione in ingegneria aerospaziale con l’interesse per l’architettura e il paesaggio?
Sin da piccolo ho sempre voluto una macchina fotografica, finché a 5 o 6 anni mia madre mi ha regalato una piccola Kodak con cui ho voluto fotografare per prima cosa la Basilica di S. Ambrogio a Milano. Credo di avere sempre avuto l’attrazione per gli spazi, anche perché lei lavorava in uno studio di architettura a Firenze che io bazzicavo da bambino, finché ci siamo trasferiti a Milano dove è diventata una textile designer, cosa che credo mi abbia influenzato. Nonostante lei mi avesse già insegnato a sviluppare e stampare a casa le foto, è solo con l’adolescenza che ho sedimentato questa passione: a quel tempo, grazie a un programma di scambio del Ministero degli Esteri, passavo le mie estati in Finlandia – insieme a figli di diplomatici di mezza Europa – in campi estivi per imparare la lingua, durante i quali la mattina si lavorava (raccogliendo patate, riparando macchine agricole, dipingendo muri ecc.) e al pomeriggio c’erano varie attività, tra cui corsi di fotografia in cui avevo a disposizione l’attrezzatura della camera oscura per potermi esercitare. Io sono autodidatta e ho imparato sul campo, anche per la parte teorica della fotografia, che ho macinato negli anni mentre operavo. Dal punto di vista professionale la svolta è arrivata nel 2007, quando ho venduto alla rivista Rolling Stones – cosa che non ci si aspetterebbe – un reportage sulla migrazione all’interno dell’allora CPT (Centro di Permanenza Temporanea) di Lampedusa, luogo di transito di culture, etnie e storie.
Agli inizi sei stato chiamato a collaborare con la Filarmonica del Teatro alla Scala: come è nata questa collaborazione e come si collega alle tue ricerche fotografiche?
Nel 2009 ho iniziato a lavorare con la Filarmonica della Scala tramite l’allora capo ufficio stampa – Paolo Besana – che era rimasto colpito da alcuni miei lavori. In quegli anni stavo finendo il dottorato in ingegneria e mi occupavo di fotografia su temi sociali, con lavori autoprodotti che vendevo a riviste come Vanity Fair, Rolling Stones, Io Donna, oltre a foto musicali per cover di cd o pubblicità (Negramaro). Non ho mai capito perché, ma mi è stato chiesto di seguire il concerto del finlandese Hinkinen alla Scala: io non conoscevo quel genere di fotografia, tanto che mi sono proposto di immortalare l’orchestra dell’auditorium per imparare a relazionarmi con lo spazio. Dopo questo primo concerto, semplicemente, mi hanno chiamato per farne altri.

Mi sono sempre chiesto perché mi avessero richiamato, visto che non avevo fatto delle belle foto, almeno per me. Ora penso che in quegli anni – ne sono passati solo 14 ma dal punto di vista del linguaggio fotografico è cambiato moltissimo – probabilmente avevo portato un cambiamento nella fotografia di scena, introducendovi il mio interesse sia per il reportage che per l’architettura e lo spazio. A poco a poco infatti le mie immagini sono diventate meno strutturate nella parte umana e musicale, con una crescente attenzione per quello che succedeva dietro le quinte e, soprattutto, con la volontà di mostrare – seppur con grande difficoltà spingendo al limite la tecnica fotografica – il teatro della Scala (prima raramente immortalato come soggetto) che per me era una delle cose più interessanti.

Come definiresti la tua fotografia? Cosa vuoi raccontare attraverso l’obiettivo?
Mi interessa la definizione del punto di vista. Con la fotografia cerco di guardare la realtà che ci circonda con occhi nuovi, leggendo i segni che lo spazio ci mette a disposizione, e provo a interpretarla attraverso un pensiero, un progetto e una metodologia, raccontandola con il mio sguardo. Il mio modo di lavorare ha una forte componente progettuale e teorica: ogni immagine è frutto di una ricerca a priori.
Tu spazi da paesaggi urbani o architetture, dove cogli visioni inedite di brani di città o dettagli di edifici o cantieri privi della presenza dell’uomo, a ritratti di persone: quali sono le differenze tra queste tipologie di fotografia, se ce ne sono?
I ritratti per me non sono un’altra tipologia rispetto alla fotografia di architettura e paesaggio, ma rientrano nel mio modo di vedere. Mi è stato detto che i miei sono “ritratti architettonici”, in cui lo spazio è fondamentale. Se penso al lavoro di Ghirri credo che i miei siano “ritratti senza persone”, anche se presenti: mi piace il suo concetto di “soglia” – più della semplice inquadratura – che definisce ciò che è dentro e fuori. In alcuni suoi ritratti, infatti, come nel “meccanico delle biciclette di Parma”, la figura umana non c’è, ma sono presenti tutti gli aspetti della sua personalità; anzi, se la persona si vedesse ne saremmo distratti.
Hai sempre uno stesso sguardo, anche di fronte a soggetti differenti?
Si, anche se il risultato può essere diverso. Il mio modo di relazionarmi all’umano non è basato sull’empatia, mentre un vero ritrattista dovrebbe creare un rapporto empatico con il soggetto. Io sono della scuola di August Sander, il grande maestro del ritratto che lavora per tipologie: per me il ritratto è un “autoritratto assistito”, in cui creo il setting e il soggetto si pone a suo modo di fronte alla macchina fotografica, un po’ come in una natura morta. Mi è stato detto che per me le persone sono marionette che posiziono e muovo nello spazio attraverso il movimento delle mani: in realtà non sono e non voglio essere un puppeteer come in Being John Malkovich, è che la macchina fotografica ha un suo punto di vista e io ne conosco la natura, quindi cerco di far sì che la persona si ponga di fronte ad essa nel modo in cui secondo me funziona meglio rispetto a quel punto di vista.

Tu insegni “fotografia per l’architettura”: quanto è difficile trasmettere alle nuove generazioni, più che la tecnica fotografica, la capacità di guardare la realtà con un nuovo sguardo?
Ormai sono più di dieci anni che tengo questo corso: ho chiesto che il nome fosse cambiato da “fotografia di architettura” a “fotografia per l’architettura” perché in esso non insegno tecnica fotografica, ma cerco di creare un percorso per immagini e un ABC del linguaggio fotografico che serva per capire l’architettura e spieghi come la fotografia possa diventare linguaggio. Essendo un corso opzionale gli studenti sono molto ricettivi, soprattutto se non hanno la pretesa di fare un corso di fotografia.
Come scegli i progetti?
Mi piacciono quei progetti che abbiano un risultato materiale (stampa, mostra), per cui in genere li creo e li porto avanti trovando specifici finanziamenti, oppure vengo chiamato a collaborare su un tema più ampio e faccio una mia proposta. I miei lavori, anche su committenza, hanno sempre una forte connotazione autoriale, per cui se non mi viene data carta bianca non inizio nemmeno, perché so già che non funzionerebbero.
Spesso collabori a progetti di ricerca multidisciplinare con vari Dipartimenti dell’Università: quanto questa collaborazione ti ha arricchito o influenzato?
Lavorare in università su temi e con competenze diverse è sempre arricchente, soprattutto quando ognuno porta la propria esperienza e professionalità: la mia è quella di dare una lettura per immagini attraverso un modo di vedere lo spazio che è affine a quello che vedo io. Ciononostante la mia non è un’imposizione, ma sono sempre aperto al dialogo e al coinvolgimento, soprattutto in fase di progettazione.
Come scatti?
Io non uso il termine “scatto” perché è un termine “nervoso” (come direbbe Giovanna Calvenzi): la mia fotografia invece non è nervosa, non insegue il momento, ma è del tempo e della riflessione, nell’attesa che qualcosa accada. In base al lavoro che devo eseguire scelgo l’orario in cui fotografare, che varia in base alle necessità. Utilizzo un medio formato digitale e cavalletti che mi sono costruito nel tempo, ma la parte sul campo rappresenta solo il 10% di tutto il lavoro, che è composto per il resto dalla fase preparatoria e dalla postproduzione e approntamento per la stampa.
In cosa consiste questa fase preparatoria?
Dipende. In lavori estesi dove si macinano centinaia di km come quello su Madrid o sul Brennero, che è durato più di tre anni, la fase preparatoria è enorme, perché – come Basilico nelle “Sezioni di paesaggio italiano” – parte dalle mappe, dai documenti, dalla definizione di tipologia e territorio, individuando sezioni e definendo a priori cosa guardare. E’ una metodologia che propongo anche agli studenti: oggi più che mai, grazie alla disponibilità immediata di fonti, ognuno può costruire un processo e un progetto di conoscenza, anche fotografico, senza uscire dalla propria stanza. Questo ovviamente non significa non andare sul territorio o guardarlo con i paraocchi, ma permette di avvicinarsi a qualcosa di complesso come la realtà con una base di informazioni da affinare sul campo. La realtà poi potrà influenzare lo sguardo o modificare il progetto originale, ma in questo modo la base è definita a priori e so che se vado in quel territorio troverò quello che cerco. Questo è importante perché le campagne fotografiche di oggi non sono quelle di una volta e il tempo e le risorse a disposizione non sono le stesse. Nel caso del lavoro sul Brennero, in particolare, il cui scopo era individuare la trasformazione del paesaggio e le differenti caratteristiche e tipologie dei territori, sono partito dalle mappe di google selezionando un percorso che ritenevo coerente e creando una serie di layers in cui ciascun ricercatore poteva aggiungere informazioni; lo stesso per Mumbai, individuando le tipologie dei differenti slum in rapporto alla città che cresceva. Nel caso di un progetto sulle acque che sto seguendo per Cap Holding, invece, in cui si sta costruendo l’heritage dell’azienda, sto lavorando anche sullo storico e sull’invisibile, per individuare una rete permeata in moltissimi luoghi che non ci si aspetterebbe.

Quanto è importante la fotografia storica e contemporanea all’interno di un progetto di ricerca sull’architettura e sul paesaggio?
La fotografia storica di oggi un tempo era la fotografia contemporanea. Una cosa è una fotografia, una cosa è un progetto fotografico, soprattutto se organico e riferito a un territorio, che nell’oggi è uno strumento di conoscenza e di indagine che focalizza lo sguardo su aspetti non così immediati, ma nel futuro rappresenta una testimonianza (la “fotografia documentale” di Walker Evans). Questo è di una potenza enorme: in un lavoro con Andrea Gritti, il curatore del progetto sul Brennero, siamo partiti dalle immagini di due testi più o meno coevi di Basilico del 1998 (“L.R. 19/98”, una mappatura dei luoghi abbandonati dell’Emilia Romagna, e “Attraversare Bergamo”, su Bergamo e dintorni) selezionando e immortalando nuovamente quei luoghi che nel frattempo erano stati trasformati, riutilizzati e ri-abbandonati, non necessariamente con la stessa inquadratura – perché non era quello lo scopo, non voleva essere un esercizio di stile – verificando così come uno sguardo rigoroso sul territorio come quello di Basilico potesse essere riletto anni dopo indagandone le trasformazioni, e, se riprodotto con lo stesso rigore, potrà a sua volta essere riletto in futuro nello stesso modo.
Hai citato più volte Basilico: alcuni tuoi progetti, soprattutto quando raffiguri le dinamiche evolutive delle città e del paesaggio, ne colgono l’eredità, non solo stilistica. Quando e come lo hai conosciuto? Quanto gli devi in termini di insegnamento?
Io ho una particolare vicinanza all’Archivio Basilico sia di affetti che di empatia, anche perché nel 2017 mi è stato passato l’importante testimone di proseguire uno degli ultimi lavori del maestro sulle città circolari incaricandomi di occuparmi di Madrid. All’inizio non ho conosciuto lui, ma Giovanna Calvenzi, senza sapere che fosse sua moglie: avevo incontrato il mondo dei photo editor mostrando il mio portfolio ai GRIN (Gruppo Redattori Iconografici Nazionale), e lei si era interessata al mio lavoro. In quegli anni mi avvicinavo in punta di piedi alla fotografia e – oggi sembrerebbe presunzione – volevo essere una spugna che assorbiva quanto mi veniva dato senza farmi influenzare. Ho incontrato Gabriele – con cui non ho mai lavorato come assistente, ma che ha sempre avuto una grande generosità nei miei confronti – nel 2010, quando invitai Giovanna alla mia prima mostra ad Assab One (centro per l’arte contemporanea) su Milano-Dowtown: un’indagine multidisciplinare sulle trasformazioni urbane di alcuni quartieri milanesi, in collaborazione con Massimo Bricocoli e Paola Savoldi del Politecnico di Milano, in una ex stamperia di più di 800 mq. Gabriele ha apprezzato il mio lavoro tanto da coinvolgermi nel 2012 in una mostra a Casa Testori dove 20 artisti affermati ne presentavano altrettanti giovani o sconosciuti: per la fotografia fu chiamato lui, che presentò me e il mio primo grande progetto “Cittàinattesa”, fatto a 4 mani con Alberto Amoretti, in cui, di fronte a una Milano che in vista dell’Expo si stava trasformando velocemente dimenticando dei pezzi, abbiamo immaginato una città ideale partendo dai suoi luoghi abbandonati o non più utilizzati: una definizione tipologica urbana attraverso i suoi simboli, da leggere sia come città che attende un cambiamento, sia come città che non ti aspetti.

In questo progetto hai immortalato architetture dismesse in attesa di riuso, tema attuale e aperto: ti è mai capitato, come Basilico, di tornare negli stessi luoghi a distanza di anni per vedere quante di queste sono ancora “in attesa” o per immortalarne altre che nel frattempo lo sono diventate?
Cittàinattesa è un progetto aperto e in continua evoluzione, come gli edifici che ne fanno parte, e di conseguenza i testi – o, ove necessario, le immagini – negli anni si sono adeguati, aggiornandosi e stratificandosi gli uni sugli altri. Questo progetto nel 2021 è stato acquisito dal MuFoco presentandolo in una mostra in cui abbiamo raccontato il cambiamento per immagini e a parole, con didascalie storiche sotto plexiglass sormontate da fogli da lucido che ne mostravano le trasformazioni e stratificazioni dall’inizio del progetto.
Anche in “the missing piece” – selezionato al PhotoBrussels Festival – hai fotografato una Milano sospesa, durante la pandemia del covid-19, raffigurandola attraverso un inedito punto di vista, ovvero la scomparsa della pubblicità dai cartelloni, emblema del senso di vuoto di quel periodo. Come è nata l’idea?
Nel 2020 Milano fu la prima città occidentale colpita dal lockdown e io, come fotografo di architettura, volevo immortalarla (anche perché così potevo uscire di casa): all’inizio ero affascinato dal racconto della città vuota, ma, dopo un po’, mi sono reso conto, insieme al mio compagno che è sceneggiatore e videomaker, che avrei ottenuto lo stesso risultato all’alba del 15 agosto di qualsiasi anno. Siamo stati allora colpiti dal fatto che, in mancanza di pubblico, nel giro di poche settimane i cartelloni pubblicitari erano stati svuotati: questo filo rosso è stato il pretesto per raccontare diverse parti della città, inclusa la rara presenza umana (segno di una città comunque in movimento), durante un momento – speriamo unico – che ha colpito la nostra storia.

Da cosa deriva l’interesse per le infrastrutture, che si ritrovano in alcuni tuoi progetti?
Il tema delle infrastrutture mi affascina molto perché esse trasformano profondamente il territorio, in continuità con progetti di ricerca sul cambiamento del paesaggio che porto avanti da anni. Inoltre possono essere facilmente osservate in sezione, guardando da e verso di esse con singole inquadrature, al fine di indagare quello che c’è oltre.

Tra le autostrade, la Mi-Bg è strettamente legata all’azienda Tenaris Dalmine, che negli anni ’20 ne ha sostenuto la costruzione: come è nata la collaborazione con l’omonima Fondazione?
La Fondazione Dalmine nel 2015 aveva ospitato una parte della mostra Mi-Bg nella propria sede: da questa prima conoscenza è emersa un’affinità su molti temi. Nel 2021, in previsione dello spostamento della sede della Fondazione nell’ex foresteria, sono stato chiamato per raccontare la Company Town di Dalmine, di cui la Fondazione avrebbe voluto testimoniare non solo il passato – custodito nel loro archivio – ma anche il contemporaneo, per il quale non avevano documentazione. Mi è stato chiesto un certo numero di fotografie per ogni edificio storico, ma io ho voluto andare in un’altra direzione con una proposta – che è piaciuta molto – in cui mostrare i cambiamenti degli elementi originali e le loro relazioni all’interno di un tessuto urbano vivo e mutevole, che non è quello di Crespi D’Adda che si è preservato quasi intatto. Da questo lavoro ne sono nati altri due: l’uno finalizzato a raccontare ciò che c’è dentro e fuori il muro della fabbrica (“Intersezioni/Confini”), l’altro per documentare il cantiere della nuova sede (“Intersezioni/Fondazione”).

Intersezioni/Confini (2023) © Giovanni Hänninen

Hai progetti a cui sei più affezionato?
Io sono affezionato a quei progetti che definiscono uno sguardo o una metodologia, il che non vuol dire che quello sguardo o quella metodologia debbano essere ripetuti ad libitum. Vedo nelle nuove generazioni l’ansia di non trovarsi un “abito comodo” che ti definisce, ti protegge e ti dà sicurezza, ma che può anche essere tolto o trasformato in qualcosa di diverso. Nel mio caso Cittàinattesa si è trasformato in People of Tamba, un progetto sulla migrazione con ritratti di persone in una zona rurale del Senegal, in cui l’architettura non è così esplicita, ma tipologicamente è la stessa cosa: per raccontare un territorio, invece di ritrarre tipologie di edifici, ho ritratto tipologie di persone. Questa trasformazione è derivata sia dalla mia empatia verso le persone – anche se nella mia fotografia non è evidente – sia dal mio interesse per i temi sociali, con cui ho iniziato.
La ricerca sul territorio continua? Quali progetti stai seguendo o hai in cantiere?
Sto seguendo un progetto fotografico sul percorso dell’acqua potabile, dal pozzo alla depurazione, per conto di Cap Holding (ex Consorzio delle acque potabili della Provincia di Milano), anche cercando di declinarlo in relazione al cambiamento climatico, tema che mi interessa molto e su cui ho già lavorato in AFTER/DOPO, realizzato per Arte Sella per testimoniare la distruzione in Val di Sella dopo il passaggio nel 2018 della grande tempesta Vaia.

Un altro progetto, per il quale non ho ancora una committenza ma che è già strutturato e che sto portando avanti, è quello sulla definizione spaziale degli archivi: sto fotografando moltissimi archivi di diverse dimensioni e tipologie, da quelli istituzionali come quello del Tribunale di Milano a quelli più contenuti, osservandone lo spazio e l’architettura, senza però occuparmi dei documenti in essi conservati (cosa che rappresenterebbe tutto un altro progetto). E’ un tema che mi interessa molto e spero che al termine possa trasformarsi in un libro o una mostra.
Unendomi a questa speranza, ti faccio i miei complimenti e ti auguro un buon lavoro: continuerò a seguire i tuoi progetti, sperando di reincontrarci!
Patrizia Dellavedova
Foto di copertina: Slum Rehabilitation Program – da Layered Mumbai (2018) © Giovanni Hänninen.