“Cerco di smembrare quello che ho davanti agli occhi per cercarne il significato”. Intervista a Carola Allemandi.

Carola Allemandi nasce a Torino nel 1997. Dopo essersi diplomata al Liceo V. Gioberti a indirizzo Linguistico si iscrive alla facoltà di Psicologia che abbandona durante il primo anno per dedicarsi alla fotografia. Frequenta i corsi tenuti da Mosè Franchi nella sua città e avvia una collaborazione che dura circa tre anni presso lo Studio Ottaviano sempre a Torino. Successivamente inizia a lavorare da indipendente come fotografa e come artista. Ha esposto in mostre personali, collettive a Bologna, Torino, Châtillon.

Come e quando è iniziata la tua storia personale della fotografia?

In realtà è nata molto tardivamente. Non ho mai avuto un’aspirazione nemmeno all’immagine. È stato un caso strano. Se si chiedesse a mia mamma se la sottoscritta in qualche modo fosse vicina all’arte la risposta sarebbe per niente. Io ero determinata a proseguire i miei studi nella direzione delle neuroscienze ed ero iscritta alla facoltà di psicologia. In realtà scoprii che in casa esisteva un fotografo e quel fotografo era mio papà. È stato una sorta di fulmine che evidentemente doveva colpirmi in quel momento. Trovai una sua macchina fotografica, una digitale senza pretese. Questo ritrovamento mi spinse a iscrivermi a dei corsi per capirne il funzionamento. Da quella scoperta nel giro di due mesi decisi di abbandonare l’università e fare la fotografa. Questa è stata la prima svolta. La mia fortuna invece è stata quella di incontrare un fotografo che mi ha accolta a bottega insegnandomi tutto per quasi tre anni. Mi ha trasmesso sia il mestiere commerciale, dai matrimoni alle foto di architettura, sia le prime basi di camera oscura e di storia della fotografia. Mi ha messo di fronte al primo Koudelka, al primo Ansel Adams. Con lui ho scoperto i primi nomi che mi hanno fatta appassionare a tutta la storia della fotografia. In seguito mi sono mossa in autonomia sia per quanto riguarda lo studio sia per l’approfondimento. Ho iniziato a collaborare con una galleria di Torino. Naturalmente i riscontri positivi che ho avuto mi hanno fatto decidere di proseguire su questa strada. Fatti i conti degli anni è una passione recente, stiamo parlando di cinque o sei anni fa. Sono pochi ma sono stati densi. Evidentemente è stato un incontro casuale ma necessario. Ora sto portando avanti ricerche sia da un punto di vista d’immagine ma anche da quello di scrittura. 

 © Carola Allemandi, Nuovo studio

So che nel 2022 per Progetto Cultura hai pubblicato un libro di poesia dal titolo “Sembrava il Sole”. Come si incrocia in te questo doppio canale espressivo? 

In realtà in modo molto semplice. In fotografia esattamente come nella scrittura c’è un guardare. In fotografia questo sguardo per alcuni è una protesi dell’occhio, per altri un potenziamento o anche un terzo occhio. Cerchi di poter vedere e plasmare la realtà in qualche modo. In poesia, con la parola, succede la stessa cosa. Infatti molti hanno sottolineato che nella mia produzione poetica che naturalmente è un percorso a latere si evince chiaramente che arrivo dal campo fotografico perché il mio aggancio all’atto del vedere viene dominato anche nel contenuto delle poesie. C’è un filtro nella visione che non è descrittivo, non c’è la realtà in quanto tale. Anche in poesia cerco di smembrare quello che ho davanti agli occhi per cercarne il significato. 

 © Carola Allemandi, Notturno

Lo scorso autunno a Torino la galleria Dr Fake Cabinet ha ospitato una tua personale dal titolo “Oltre il Buio” presentando al pubblico una selezione di fotografie tratte da tre tuoi progetti: “Contatti”, “Notturni” e “Nudi”. C’è una poetica che possiamo definire notturna nei tuoi lavori? 

“Notturni” è stato il mio primo lavoro, quello che mi ha segnata di più. Quel buio è un buio che vuole portare a una cancellazione degli elementi. Ho trovato in questa modalità la possibilità di esprimere uno sguardo che vuole essere sintetico, quasi meta fotografico. Ho portato questo ragionamento all’interno dell’inquadratura stessa, togliendo tutto quello che non serve.

 © Carola Allemandi, Notturno

Il buio è stato un escamotage anche poetico per andare a sottrarre elementi che non servivano. Quello che sto portando avanti adesso è una cosa simile ma non è legata alla notte pur prendendo spunto da questo nero totale. È un lavoro ancora in progress sul corpo. Anche qui partendo dai nudi, dalla forma, per arrivare allo stesso risultato dei “Notturni”. Direi che più che notturna ora sono sintetica.  

Osservando il tuo lavoro “Nudi” mi hai fatto venire in mente Cezanne nel momento in cui, superato l’impressionismo, inizia ad indagare la forma, dimenticando la figura, alla ricerca della geometria.  

In effetti adesso che mi ci fai pensare è vero, anzi mi spingerei fino a George Braque. Ho sempre avuto riferimenti che derivano dalle scoperte che faccio man mano lungo il mio percorso. Se nei Notturni quasi non ci sono influenze perché è stato un lavoro fatto nella giovinezza assoluta, nei Nudi c’è più fotografia. I miei maestri di riferimento sono stati Bill Brandt, Carla Cerati. Non avevo fatto ancora un riferimento diretto rispetto alla pittura.

 © Carola Allemandi, Nudo

Ho cercato un significato che non fosse il corpo, ma il suo significato formale sganciandolo dalla semantica del corpo. Un corpo che non si deve comportare da corpo ma da forma, da volume esprimendo un significato di per sé. Il fatto che sia un corpo femminile non è determinante, è un corpo asessuato. Non c’è erotismo diretto. Come dicevi tu volevo arrivare a un assoluto geometrico. 

 © Carola Allemandi, Nudo

Nudi” è un lavoro in analogico. Pensi che per la tua generazione la pellicola rappresenti non un ritorno al passato ma una nuova modalità di espressione da esplorare? 

Noi abbiamo dovuto retrocedere, abbiamo dovuto fare un percorso a ritroso. Viviamo lo stacco generazionale di chi è venuto prima di noi e sottolinea il fatto di essere passato attraverso un processo artigianale, complesso. Io ho iniziato con il digitale per forza di cose. Però penso che un po’ spronati dall’orgoglio, un po’ perché la vecchia generazione ci punzecchia da dietro, un po’ perché c’è un innamoramento nei confronti di quella che è la vera fotografia sia così. L’estetica analogica è totalmente diversa dall’estetica digitale. Ci sta piacendo anche lo sporco dell’analogico. Una volta in un negozio di fotografia qui a Torino mentre stavo comprando delle pellicole mi è stato riferito che oggi anche nelle richieste di servizi per il matrimonio c’è interesse per la pellicola. C’è un interesse a tutto tondo, per chi fa e per chi ne fruisce. 

Questo apre le porte non solo a risultati fotografici propri del mezzo analogico, ma diventa spunto per riscoprire la storia della fotografia. 

Tu sei di Torino, una città che in particolar modo sta puntando molto sulla fotografia. Cosa ne pensi tu da torinese e da fotografa? 

Da torinese trovo che sia entusiasmante nelle intenzioni. Da fotografa mi preoccupa l’attenzione eccessiva al botteghino. Questo lo dico a fronte dell’inaugurazione della personale di JR, ma anche di quella a Camera. Quello che secondo me e secondo il mio gusto manca un aggancio storico con la fotografia. Abbiamo avuto Gregory Crewdson alle Galleria d’Italia, una vera meraviglia. Ho la sensazione che qui a Torino dobbiamo capire dove andare a parare. Spero che si cerchi anche di aprire una discussione viva e attiva sulla fotografia come succedeva nei primi del novecento tirando fuori un manifesto della fotografia contemporanea per dare anche a noi giovani fotografi una linea guida. La ricerca ha sempre bisogno di punti di riferimento. 

Un’ultima curiosità. Oggi, da giovane fotografa indipendente, come ti immagini tra venti anni? 

Per la mia generazione è difficile parlare di futuro. Colgo un disagio generalizzato in questa parola. Tra venti anni a volte non mi immagino per niente, come se non mi riguardasse, altre spero di continuare in questo mio percorso senza affanno. Mi piacerebbe tirare furi qualche idea innovativa sulla ricerca fotografica, anche da un punto di vista scritto. Certamente non mi vedo insegnante. Non lo so. Spero solo di continuare a tirar fuori immagini che abbiamo un senso, costruendo un passo alla volta un percorso in un settore in cui la competizione è davvero elevata e in cui è difficile dire qualcosa di nuovo. Sarà una sfida. 

Valeria Valli

www.carolaallemandi.it