Emanuele Girardi, in arte Ema Kuroko, nasce a Trento nel 1992. Alle spalle ha un passato scolastico burrascoso, che lo porta a muovere i suoi primi passi nel mondo dello spettacolo fin da giovanissimo. A 23 anni mette piede in teatro come macchinista e lì lo troviamo ancora oggi dove, dal 2019, lavora a tempo pieno al Teatro Alla Scala di Milano.
Destreggiandosi tra la polvere, i chiodi, le corde ed il buio del palcoscenico, nel tempo libero gli piace dedicarsi all’arte della fotografia analogica; hobby che lo ha portato a costruire una camera oscura nel seminterrato della sua nuova casa e che inaugurerà a brevissimo.
Incuriositi dalla sua dedizione e dal suo approccio personale e intimo, abbiamo deciso di incontrare Emanuele per approfondire il suo rapporto con la fotografia analogica e in particolare con il processo creativo che la circonda.

Raccontaci la tua personale storia della fotografia: come è nata? Che rapporto hai con essa?
Credo che il tutto nasca dalla mia voglia di documentare. Ho dei filmati in VHS risalenti alla mia infanzia dove provavo ad utilizzare la videocamera di famiglia registrando i miei genitori e mia sorella più piccola con tanto di narrazione in sottofondo. La prima macchinetta fotografica che ho usato è stato un pezzo di plastica caricato a rullino in una gita alle scuole elementari, poi a qualche compleanno ho ricevuto una seconda macchinetta un po’ più prestante con lettore di codici DX, ma non ho grandi ricordi né documenti stampanti. Ai primi anni di superiori ho ricevuto la Minolta XG2 di mio nonno ed ho provato ad esporre qualche rullino con pessimi risultati. Quindi ho deciso di capire meglio la tecnica prima di continuare. Il digitale poi mi ha accompagnato per anni ma non mi ha mai realmente soddisfatto. Mancava qualcosa.

Che cosa rappresenta per te il mezzo fotografico?
Il mio interesse non sta nella fotografia in sé, ma nel processo che la circonda. Dalla scelta della pellicola alla stampa. Passando per corretta esposizione, sviluppo e qualche ora di camera oscura. Le mie foto devo vederle nascere, crescere e morire. È questo che mi interessa. Direi che il mezzo fotografico è per me un misto tra la mia passione per il lavoro pratico, tecnico, manuale e la voglia di imprimere dei momenti per raccontarne poi la storia, agli altri o semplicemente a me stesso.

Come e perché ti sei avvicinato alla fotografia analogica?
Come accennavo, la fotografia in sé non mi soddisfava, mancava qualcosa. E quello che mancava l’ho trovato nella chimica per lo sviluppo e nei provini a scalare su carta fotografica. Sono davvero affascinato dal processo analogico e dal tempo che serve per avere un risultato decente. La frenesia odierna va controllata e il lavoro in analogico mi aiuta a farlo.

Nelle tue fotografie ti dedichi principalmente ad immortalare il kinbaku: cosa puoi dirci di questa arte? Come mai questa scelta?
Piccola premessa, spiegare cos’è il kinbaku in poche righe mi risulta impossibile, servirebbe un’intervista dedicata! Perdonatemi le sa risposta vi sembrerà sommaria o sbrigativa.
Più che arte, il kinbaku è una pratica erotico/sessuale racchiusa tra le mille sfaccettature del mondo sadomaso. Si differenzia dagli altri tipi di bondage perché racchiude in sé una fortissima componente estetica. Con kinbaku si intende il bondage tradizionale giapponese e letteralmente significa “legatura stretta” con però un’accezione sessuale. Un altro nome con cui viene definita questa pratica è shibari, che invece significa semplicemente “legatura”. Ho iniziato a studiare kinbaku nel 2019, nel frattempo iniziavo pure ad esporre in maniera più seria i primi rullini. A pari passo con lo studio delle corde ho iniziato un grande lavoro di ricerca e di collezione di riviste sadomaso giapponesi risalenti all’epoca Shōwa (1926/1989). La voglia di fondere queste passioni è stata immediata.

Che tipo di rapporto esiste tra i soggetti che fotografi e la tua arte fotografica?
I soggetti delle mie fotografie sono spesso persone a me vicine. Difficilmente mi sento a mio agio a fotografare persone sconosciute, ma ci sto lavorando. Faccio molte foto in momenti intimi ma non ho mai avuto interesse nel pubblicarle. Mi piacciono molto i ritratti, mi piacciono le espressioni che mi ricordano un momento preciso, cerco spesso di rubare qualcosa. Anche se il più delle volte mi perdo a guardare la scena attraverso il pentaprisma e mi dimentico di scattare. Detto questo l’essere umano rimane il mio soggetto preferito.

Pensi che le tue fotografie possano esprimere le stesse emozioni anche in digitale?
Non lo so, dicono che se uno è un bravo fotografo, il mezzo non è quello che fa la differenza. Non essendo io un fotografo ma semplicemente un appassionato di fotografia analogica, direi che quello che cerco io è il supporto a pellicola, il digitale lo lascio agli altri. In più l’attesa del risultato è un’emozione alla quale non rinuncerei mai ed è un qualcosa che mi aiuta a ponderare bene il numero di scatti e le situazioni da immortalare.

Quale pensi che sia lo stato dell’arte circa la fotografia analogica in Italia?
Penso che vada un po’ di moda, il che è un bene così il mercato continuerà a produrre, anche se ahimè i prezzi salgono di mese in mese in maniera del tutto insensata. Detto questo c’è pure una bella rete analogica in Italia, grazie alla quale sto entrando in contatto con un sacco di persone bellissime con alle spalle progetti altrettanto bellissimi.

Se potessi descrivere la tua fotografia con tre parole, quali sarebbero e perché?
Passione, dedizione e grana. Senza passione è difficile vivere a pieno il processo analogico, perché gli errori e i fallimenti sono sempre dietro l’angolo. Quando capitano, bisogna accettarli e usarli a proprio vantaggio per affinare la tecnica. La dedizione serve per non far stagnare la passione. Si deve continuare a lavorare e a divertirsi attraverso i sali d’argento. La grana è quella cosa che nel processo di stampa mi ricorda quanto è bella la pellicola e quanto sia infinitamente unica la sua forma.
Chiara Cagnan