Nanni Fontana nasce a Milano nel 1975. Dopo la laurea in Economia dei Mercati Finanziari Internazionali presso l’Università̀ Bocconi si dedica al fotogiornalismo. Dal 2003 al 2008 si occupa di attualità̀ per alcune agenzie fotografiche. Indipendente dal 2009, concentra il lavoro su approfondimenti di tematiche sociali e di salute.
Come e quando è nata la tua storia personale della fotografia?
È nato tutto tardi. Al terzo anno di università stavo vivendo un periodo in cui non stavo molto bene. Iniziavo a dubitare della prospettiva di passare tutta la vita a gestire soldi, fare soldi. Ero cresciuto nella convinzione di studiare economia. Mio padre possedeva un’azienda, mia madre lavorava in banca. Una storia già scritta. Non avevo grosse passioni a quel tempo. I miei ventidue anni erano quelli in cui tutti partivano per l’India. Pensai di aver bisogno di andare altrove, dove non c’era nessuno. Decisi dunque di partire per la Mongolia. Un luogo vuoto anche ora, a maggior ragione anni fa. Mi feci prestare la macchina fotografica di mio padre per fare delle semplici foto ricordo. La fotografia per me non è mai stata una passione e non lo è nemmeno ora. Della fotografia in sé non mi interessa quasi niente. La fotografia per me è attualità e utilità. Attualità perché mi interessa raccontare il mio tempo, inseguendo lavori di pancia anche molto lunghi. Una volta tornato in Italia mi sono accorto di aver scorto una strada. Mi sentivo privilegiato per essere nato a Milano, in una famiglia benestante. In questo strumento vidi una missione, vidi la possibilità di restituire qualcosa. Nel 2001 frequentai il corso serale all’Istituto Italiano di Fotografia perché volevo prepararmi, conoscere l’uso delle luci ad esempio. Però la fotografia per me ha sempre significato viaggiare leggeri: zero cavalletti, zero zaini enormi. Viaggiare leggero il più possibile come se fossi un turista. Questo approccio mi è rimasto, un po’ per pigrizia ma non solo. Non mi importa controllare tutto. Il bello della fotografia è riuscire a mettere insieme la luce, la scena, l’inquadratura, l’istante, pensando a quello che vuoi raccontare. Come diceva il grande Maurizio Garofalo: ci sono le foto belle e le foto buone. Quelle belle le facciamo tutti, anche mia nipote con il telefono. Quelle buone sono quelle utili. Per me la fotografia è sempre stata uno strumento con cui restituire alla società, nel mio caso, indagare me stesso pur facendo fotogiornalismo. Non so se ci sia ancora sul mio sito quella frase rivelatrice, ma tutto parte dalle mie paure. Utilità di restituire e utilità di crescere. Questo il mio percorso. La magia è dunque successa in Mongolia, da lì in poi non ho avuto più dubbi né sulla fotografia né sul fatto che per me la fotografia fosse in strada. Mi sembra un palcoscenico pazzesco. Non mi interessa costruire altro.

Scorrendo i tuoi lavori, vorrei soffermarmi su “Out of Sight”, un progetto fotogiornalistico in cui moltissimi scatti sono stati realizzati tra il 2011 e il 2013. Hai raccontato l’evoluzione dell’epidemia di AIDS ritraendone gli effetti a distanza di anni in cinque tra i paesi tra i più colpiti: Thailandia, Mozambico, Brasile, Ucraina e Stati Uniti. Ho notato che tu sei sempre pronto a uscire dalla comfort zone. Quale è stata la genesi di questo lavoro? Come ti è venuta l’idea che ha determinato la scelta del titolo?
Il titolo questa volta nasce da me. Lo dico sorridendo perché solitamente è mia moglie a suggerire l’idea. Lavora come grafica pubblicitaria e dunque è più avvezza a trovare la parolina giusta. “Out of Sight” significa fuori dalla vista. Secondo me questo titolo riesce a legare due aspetti. Il non vedere perché il tema è un virus, qualcosa che non si può scorgere a occhio nudo. Il non vedere perché negli anni si è smesso di parlarne, come se fosse qualcosa appartenente al passato. Chi veniva discriminato allora continua di fatto ad esserlo. Non abbiamo imparato a non farlo, a dare supporto. L’Italia è un paese in cui l’epidemia ha numeri relativamente bassi, ma non è così per altri luoghi.

Quando nel 2009 si chiuse il mio rapporto con il mondo delle agenzie iniziai a lavorare da indipendente. Questo lavoro mi si presentò come un’occasione e prese le mosse da una mia paura. Mentre mi trovavo in montagna con mia moglie mi colpirono gli inviti a sottoporsi al test per l’HIV. Mi spaventai ma presi la decisione di lavorare su questa paura. Dario Pignatelli, mio amico collega e grandissimo fotografo, si era trasferito in Thailandia, meta per antonomasia del turismo sessuale. Una volta raggranellata la cifra necessaria lo raggiunsi. Scoprii che quel paese aveva gestito benissimo l’epidemia attraverso la prevenzione. Sono stati tra i primi a distribuire i preservativi gratuitamente e a produrre medicine a basso costo. Un esempio che rimbalzava tra il delirio e il virtuoso e di conseguenza era parecchio interessante. Al mio ritorno fui contattato dal capo del dipartimento di salute materna infantile dell’OMS con cui avevo lavorato anni prima. Colpito dal progetto lo sponsorizzò integralmente. A quel punto ho potuto allargare lo sguardo in chiave globale. L’intero lavoro fin da subito è stato finalizzato ai ragazzi. Volevo che fosse uno strumento di prevenzione. Ho iniziato a collaborare con una divulgatrice scientifica che è riuscita a coinvolgere la Durex la quale ha donato preservativi da distribuire durante le mostre. Abbiamo avuto anche studenti di medicina che ci hanno affiancato durante gli incontri con i ragazzi. Volevo coinvolgere le scuole e ci siamo riusciti.

Dallo sguardo fuori di “Out of Sight” mi piacerebbe passare allo sguardo dentro di “In Transito. Un Porto a San Vittore” in cui hai documentato vita, attività e speranze di circa sessanta detenuti tra il 2017 e il 2018. In questa casa circondariale di Milano è attivo infatti un reparto chiamato La Nave, che offre un percorso terapeutico ai detenuti che hanno problemi di dipendenza. Come si è incrociato il tuo progetto con questo intervento in cui la creatività entra in gioco come possibilità di riscatto?
Quel lavoro nacque in una fase depressiva, in un periodo di pochi soldi. Feci mia la massima per cui il bravo reporter non racconta solo storie dall’altra parte del mondo, ma coglie anche quelle che si snodano sotto casa. Sono cresciuto quasi davanti a San Vittore. Da circa dieci anni regalavo loro le foto per il giornaletto L’Oblò della Nave che veniva distribuito da Feltrinelli. Era in carico a due giornalisti professionisti. I detenuti avevano la possibilità di scrivere, sperimentando dunque la terapia della scrittura. Chiesi di poter entrare a fare foto per raccontare questa realtà alla dottoressa Bertelli, allora responsabile del reparto, e al dottor Pagano, storico direttore di san Vittore. Per due anni ho potuto accedere abbastanza liberamente a quella sezione incontrando non solo quello che ti aspetti di trovare. Un mondo sfaccettato. Mi colpii la solidarietà tra di loro, l’annullarsi delle differenze. Mi sono preso il tempo per curare questo lavoro. Solo successivamente è nata l’idea della mostra che approdò in Triennale. Nacque anche la proposta di dare vita a un festival. Anche in questo caso ci tenevo a coinvolgere le scuole parlando di dipendenza, di droga. Di nuovo la fotografia come utilità. Parlare, far sapere, prevenire sono i tre verbi più nelle mie corde.

La tua ultima mostra “Progettare la Memoria. Lo Studio BBPR: i monumenti, le deportazioni” ha inaugurato il 18 gennaio e rimarrà aperta al pubblico fino al 26 di febbraio presso La Casa della Memoria di Milano. In esposizione insieme alle tue fotografie si possono vedere schizzi e documenti relativi ai progetti dello studio di architettura BBPR per monumenti e memoriali dedicati alle vittime dei campi nazisti. Sottotraccia la vicenda di Gian Luigi Banfi e Lodovico Barbiano di Belgiojoso, due dei quattro componenti dello studio. Gli altri furono Enrico Peressutti ed Ernesto Rogers, fuggito in Svizzera perché ebreo. Banfi e Barbiano subirono in prima persona la deportazione a Mauthausen per la loro attività nelle fila del Partito d’Azione negli anni della Resistenza. Gian Luigi Banfi purtroppo non sopravvisse alle dure condizioni del Lager e morì a Gusen nell’aprile 1945. Hai definito questo lavoro un progetto atipico. Perché?
Per me il tema è sempre l’essere umano anche all’interno di un percorso emozionale. Qui tecnicamente la parte fotografica è dedicata ai monumenti. Soggetti che non respirano, rimangono immobili, caratteristiche che a volte possono costituire un vantaggio quando hai bisogno di altre fotografie. Mi sono accorto che il mio interesse è la persona. Curiosamente tutti e tre i lavori di cui abbiamo parlato sono pro bono. Ad esempio con “Out of Sight” avrei potuto guadagnare qualcosa, ma ho fatto la scelta di spendere il budget per portare con me un giornalista perché sono un fautore della condivisione delle idee e delle capacità. Si cresce insieme.

Se lavori su progetti complessi e sul lungo periodo può solo essere la pancia a guidarti. Questo lavoro è diverso nel senso che i giorni di lavoro sono stati decisamente di meno. Quello che mi ha portato ad appassionarmi e ad approcciarmi come se fosse un reportage come gli altri è stata la vicenda umana di questi ragazzi. È una storia davvero incredibile che coinvolge quattro amici a cavallo di due guerre. Si laureano, fondano uno studio. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale e l’introduzione delle leggi razziali decidono di entrare in clandestinità. Due vengono scoperti e deportati nei campi. Solo uno dei due riesce a tornare e impiega due anni a rimettersi dritto. Gli altri tre decidono di non togliere dall’acronimo la lettera del nome dell’amico mai più tornato per onorare la sua memoria, credendo fortemente nello spirito di gruppo sempre e comunque. Questa storia l’ho sentita viva. Ho un rapporto con i miei amici simile a questo, a scuola insegno sempre a fare squadra di fronte alle difficoltà del mestiere e non solo.
A proposito di lavoro di squadra parliamo di “The River Journal”, un collettivo multimediale editoriale che hai fondato con Marzio G. Mian, Nicola Scevola e Massimo Di Nonno per raccontare l’attualità esplorando i grandi fiumi del mondo. Mi ha colpito il nome che rimanda innanzitutto alla letteratura di viaggio sui fiumi, come se fosse il fiume stesso a suggerirvi storie, e poi alla lentezza del fiume stesso. Siete stati sul Mississippi, sul Po, lungo il Missouri. Quale sarà il prossimo fiume?
L’idea non è mia ma di Marzio Mian, un giornalista raro. Uso parole sue per descrivere questo progetto. Quella lentezza è un punto di vista privilegiato sull’attualità. Abbiamo multimedializzato per necessità anche se questo è un punto su cui io soffro parecchio. E come mischiare tennis e ping pong, tieni presente che gioco a entrambi, hai sempre una racchetta in mano ma sono due sport diversi. Video e foto sono due sport diversi. Purtroppo quella lentezza del fiume non riusciamo a riportarla nella produzione per questioni economiche, ma è quella che ci vorrebbe per entrare in profondità nelle storie. Quello che ti salva è l’esperienza. Il progetto è nato con l’idea di inventarsi qualcosa in un momento in cui i giornali iniziavano a saltare. Abbiamo scelto il Po nel periodo dell’Expo per raccontare la food valley italiana e siamo riusciti a trovare sponsor. Non facile ma possibile trovare un equilibrio con il raccontare storie e le situazioni corporate.

Il Missouri si è trasformato nella storia della Trump valley nel periodo delle elezioni. Il Tamigi nel racconto della Brexit, l’Elba ha offerto lo spunto per ricordare i trent’anni della caduta del Muro di Berlino. Per quanto riguarda il Nemunas, in Lituania, lo percorsi con l’imbarcazione tipica dei pescatori lituani. Quello è stato un viaggio divertentissimo, si ruppe infatti il tubo che porta la benzina dal serbatoio alla camera di combustione del motore. Riuscimmo a ripararlo sostituendolo con la cannula di una flebo che ci regalò un piccolo ospedale a cui chiedemmo aiuto. Fu avventura anche il viaggio lungo un fiume che confina con Kalinigrad che è Russia in Europa. Il prossimo fiume non lo abbiamo ancora trovato. Provando ad ottenere un altro Grant, dopo quello avuto per il progetto lungo il fiume Mekong in Vietnam, potremmo sceglierne uno in Africa che è interessata dal problema della deforestazione. Non è facile ed è anche molto costoso organizzare un viaggio in questo continente. Qualcosa ci inventeremo.
Valeria Valli