Il Covid-19 e la fotografia

Nelle scorse settimane Discorsi Fotografici ha deciso di dedicare spazio ad alcuni reportage realizzati intorno al tema Covid-19.

Il nostro punto di vista di osservatori del mondo fotografico non poteva non farci cogliere che non solo la pandemia, ahinoi, è fenomeno di grande rilevanza in questo 2020, ma lo è anche la grande risposta sotto il profilo della produzione fotografica.

Il Covid-19 ha il pregio di aver proposto un tema di impareggiabile trasversalità così come l’incredibile caratteristica di essere entrato come straordinario ed eccezionale nelle vite di tutti noi, rivelandosi in realtà ordinario collettivamente perché condiviso.

Abbiamo visto i social media e le piattaforme di condivisione fotografica saturate dalle immagini delle nostre pizze autoprodotte, delle nostre piazze vuote, delle nostre postazioni di smartworking e così via.

Niente di nuovo sotto il sole, tuttavia: questa invasione non ci pare rappresenti il desiderio di fotografare la particolare situazione vissuta, come d’altro canto l’immagine del piatto mangiato per pranzo, o del selfie davanti al monumento del momento non sembrano rappresentare il desiderio di fotografare. Fotografare, sì. Piuttosto incarnano l’impulso di “postare” sul social di turno, relegando la fotografia a pura schiava di un fenomeno voyeuristico che pare aver colpito quasi tutti noi. Fenomeno ben più ampio e diffuso, che del Covid-19 si è servito come si serviva delle vacanze, delle torte di compleanno o delle nostre scarpe nuove.

Il motivo per cui Discorsi Fotografici ha deciso di dedicare spazio a lavori sul Covid-19 ha dunque una valenza molto precisa: non si è trattato semplicemente di non restare esclusi dal proporre lo sviluppo fotografico di un tema così rilevante nella nostra storia (intento comunque lodevolissimo), ma piuttosto si è voluto ricordare come la Fotografia abbia ancora un ruolo più nobile e complesso in molti di noi che ne riconoscono il linguaggio. E lo amano. Il focus della nostra decisione e la forza che abbiamo voluto imprimere a questa proposta sta dunque tutta nell’insieme della selezione di lavori unitamente alla sua differente declinazione.

Il tema è stato indagato e percepito e a voi proposto secondo diverse angolazioni: gli spazi urbani svuotati (si veda “Covid Bar” di Andrea Falcon); le nostre case (si vedano “Oltre il Covid” di Massimo Podio e “Do they know it’s Covid time?” di Andrea Falcon); le case e gli altri visti attraverso il monitor del nostro dispositivo, la distanza (“Percezione  Distante” di Sarah Lisa Sollami); l’introspezione e riflessione sullo stato delle cose (“The Age of Masking” di Giovanni Savino); la situazione di emergenza sanitaria, la prima linea, nelle strutture ospedaliere (“Mypersonal Covid-19” di Stefano Grando).

Temi su cui si sono efficacemente impegnati tanti altri fotografi. 

Perché, dunque, questi progetti che vi proponiamo?

Nel caso del primo argomento abbiamo scelto un lavoro che ci è parso molto interessante per la originale costruzione compositiva. La scelta dell’autore non è caduta sulle piazze o sulle strade vuote, ma piuttosto sulle stesse riflesse nelle vetrine dei locali chiusi (i bar) di Montecatini, in un rimbalzo tra l’interno e l’esterno che rafforza il silenzio e lo «stato di sospensione che non è abbandono». Falcon non ci ha mostrato il vuoto, ma l’assenza, dimostrandosi capace di una centratissima lettura di quanto abbiamo vissuto durante il lockdown.

©Andrea Falcon, da “Covid Bar”
©Andrea Falcon, da “Covid Bar”

Nel caso del Covid-19 nelle nostre case, i lavori “Oltre il Covid-19” e “Do they know it’s Covid Time?” sono solo apparentemente simili. Entrambi singolarmente interessanti, ci è soprattutto sembrato vincente il confronto tra i due lavori (abbiamo proposto questa diretta Facebook, al riguardo).

Nel lavoro di Podio il processo fotografico pare seguire una linea di introiezione, l’apoteosi della quale si iscrive negli occhi azzurri della figlia dell’autore nel campo di un cielo blu ingoiato nel vortice del suo iride. Nel lavoro di Falcon il processo è invece, all’opposto, proiezione in un tempo altro, un ritorno al passato, una sospensione nel tempo. Non sono forse queste, due delle direzioni che il tempo del Covid ci ha suggerito? Con un punto in comune: in entrambi i lavori si respira la nostalgia per qualcosa che non ci apparterrà più. Forse in questo sta il senso del fotografare?

©Massimo Podio, da “Oltre il Covid-19”
©Massimo Podio, da “Oltre il Covid-19”
©Massimo Podio, da “Oltre il Covid-19”
©Andrea Falcon, da “Do they know it’s Covid time?”
©Andrea Falcon, da “Do they know it’s Covid time?”
©Andrea Falcon, da “Do they know it’s Covid time?”

Altro spunto rappresenta invece il lavoro di Sarah Lisa Sollami, che vi abbiamo proposto perché si tratta di un esperimento fotografico, nato dai limiti che il lockdown le (ci) ha imposto: anche la sperimentazione fotografica è stata infatti il frutto di questo tempo. La Sollami propone dei ritratti dove «La macchina fotografica è stata sostituita da due cellulari, l’otturatore da uno screen-shot, il fotografo dal soggetto ed il soggetto dal fotografo.». Il tempo del Covid è dunque stato per Sarah un tempo per interrogarsi su quali siano le reali distanze. Sotto il profilo fotografico cosa ha ritratto Sara? Le persone o la distanza? Cosa si legge dalle fotografie che ci propone? A voi la valutazione; a noi l’avervi offerto, tramite questo lavoro, uno spunto di riflessione su uno dei generi fotografici – il ritratto – più amati e non di sempre facile realizzazione.

© Sarah Lisa Sollami, da “Percezione Distante”
© Sarah Lisa Sollami, da “Percezione Distante”
© Sarah Lisa Sollami, da “Percezione Distante”

Discorsi Fotografici ha condiviso con voi anche il lavoro di Giovanni Savino, che gioca su uno degli oggetti che in tempo di pandemia è entrato nella nostra quotidianità e nel nostro archivio iconico: la mascherina. Anche nel suo caso abbiamo dei ritratti, solo all’apparenza autoritratti, un’altra pratica che abbiamo visto fiorire durante il lockdown non certo o non solo per il mancare di modelli a nostra disposizione; il tempo Covid è stato anche tempo di introspezione, di indagine, di autodichiarazione. Come lo stesso autore suggerisce, la mascherina per la prima volta istituzionalizza una maschera da indossare, ma siamo certi che in fondo già non ne indossassimo? Savino ci invita alla riflessione, con una serie di fotografie a metà tra l’ironico e il drammatico.

©Giovanni Savino
©Giovanni Savino
©Giovanni Savino
©Giovanni Savino
©Giovanni Savino

Entrambi i lavori di Savino e della Sollami ci sembra che, partendo dai limiti che la quarantena ci ha imposto, così come dalle nuove situazioni che la pandemia ci ha fatto vivere, vogliano mostrarci come la “normalità” possa essere certamente ridiscussa al punto, in fondo, dal non esistere affatto. Non è cosa da poco di questi tempi.

Infine («last but not least») il reportage fotografico di Stefano Grando dalla prima linea: l’ospedale. Il lavoro ci ha colpiti non soltanto per la qualità e la sensibilità del progetto, ma perché Grando non ne è solamente l’autore ma anche il protagonista, essendo operatore sanitario direttamente coinvolto nella gestione dell’emergenza.

©Stefano Grando
©Stefano Grando
©Stefano Grando
©Stefano Grando
©Stefano Grando
©Stefano Grando
©Stefano Grando
©Stefano Grando
©Stefano Grando
©Stefano Grando
©Stefano Grando
©Stefano Grando
©Stefano Grando
©Stefano Grando
©Stefano Grando
©Stefano Grando
©Stefano Grando

Di fronte alla sofferenza sorge sempre spontanea la domanda su quanto sia lecito puntarle addosso una fotocamera, pur giustificati dal desiderio di raccontarla al mondo. Grando, senza retorica e senza prestare il fianco ad alcuna ricerca di compassionevole conforto, scrive con la luce il suo “My personal Covid-19” ottenendo in un sol colpo il superamento della questione; con il pieno diritto di raccontarsi, riporta noi, fotografia e realtà al centro: il Covid. È nel suo viso segnato, nella paura di abbracciare suo figlio, nelle mani dei pazienti tenute tra quelle degli infermieri vestiti come astronauti.

La sua delicata scelta di parlarci della malattia attraverso le vicissitudini di chi è stato in prima linea nel combatterla, senza fronzoli alcuni ma anche senza sconti, diretta, ci aiuti a declinare qualsiasi altra lecita visione di questo periodo di emergenza, pizze autoprodotte comprese.

Luisa Raimondi