Nuovi sguardi in mostra a Cascina Roma Fotografia. San Donato Milanese rinnova il doppio legame con la fotografia e la comunità

Di cosa parliamo quando parliamo di fotografia etica? Susan Sontag nel suo magistrale Sulla fotografia scrive: 

«La suprema saggezza dell’immagine fotografica consiste nel dire: questa è la superficie. Pensa adesso, o meglio intuisci, che cosa c’è da là da essa, che cosa deve essere la realtà se questo è il suo aspetto».1

Sontag, nei saggi che compongono il libro, ci fornisce una serie di strumenti utili ad approcciarci – che sia in veste di fotografi o di lettori di immagini – alla fotografia in maniera consapevole e attiva, in modo da educarci a una postura responsabile della porzione di mondo verso cui stiamo posando il nostro sguardo. L’intuizione più illuminata e necessaria affinché questo avvenga è espresso dalla critica americana quando scrive che le fotografie sono esperienza catturata, e la macchina fotografica altro non è che lo strumento con cui essa viene acquisita. Fotografare, infatti, significa appropriarsi di quello che si sta fotografando, e questo presuppone un rapporto di potere tra chi detiene l’oggetto-camera – che decide cosa portare nel campo della conoscenza – e il mondo. Quindi, di cosa parliamo quando parliamo di fotografia etica? Sontag non usa mai queste parole, ma è chiaro che quando ci invita a mantenere un approccio non neutro, uno sguardo responsabile, è proprio questo che intende: un particolare modo di guardare al mondo in cui viviamo, un mondo di cui riconosciamo le implicazioni, e da cui ci facciamo toccare, un mondo che non guardiamo da una posizione di distanza, ma in cui siamo immersi carnalmente. La fotografia etica è frutto di un chiaro posizionamento di colui che guarda al sociale consapevole di farne parte, ma soprattutto consapevole del racconto che decide di darne; infatti, ciò che più caratterizza la fotografia etica è proprio la consapevolezza di una realtà al di là della superficie. 

È quello che succede a San Donato Milanese dove, presso Cascina Roma Fotografia, il 22 aprile 2023 è stata inaugurata Nuovi sguardi: la giovane fotografia contemporanea, una rassegna composta da sei percorsi espositivi di altrettanti giovani fotografi provenienti da diverse parti del mondo, ma tutti accomunati da un approccio etico alla fotografia e dalla volontà di raccontare storie di terre e culture lontane dalla nostra. Le mostre, visitabili fino al 4 giugno 2023, sono allestite nelle sale della Cascina, ma si aprono anche alle zone circostante, con il lavoro di Jana Mai al parco Laghetto Europa. Questo approccio volto all’attenzione del territorio conferma l’impegno della rassegna, realizzata dal Gruppo Fotografico Progetto Immagine in collaborazione con il Comune di San Donato Milanese, a consolidare il rapporto tra la fotografia e la comunità, sempre più coinvolta in attività quali workshop, corsi di fotografia, incontri tematici, organizzati nell’ambito del progetto Cascina, che vedrà la sua sede diventare un vero e proprio centro internazionale di fotografia fino al dicembre del 2024.

Gli artisti le cui opere sono esposte presso le sale della Cascina sono: Laure Andrillon, Chiara Negrello, Ian Cheibub, Mikkel Hørlyck e Stephan Lucka. 

Laure Andrillon, nata in Martinica e attualmente residente a San Francisco, fotografa e scrittrice freelance, presenta Fountain of Youth, una serie che vede protagonista l’Harlem Honeys & Bears, una squadra senior di nuoto sincronizzato fondata nel 1979 nel cuore di Harlem, a New York, e i cui membri hanno attualmente un’età compresa tra i 64 e i 100 anni. In queste vasche molti nuotano da quando sono nati, altri imparano in età più avanzata, ma tutti considerano la piscina un luogo di protezione e aggregazione, oltre che di autodeterminazione, cercando di combattere lo stereotipo che “i neri non sanno nuotare”. 
I volti di questi abitatori del tempo e dello spazio – di un tempo e di uno spazio complessi – raccontano dei martedì e dei giovedì passati al centro ricreativo St Mary’s, nel Bronx, che si divertono a trasformare in un gioioso parco giochi. Raccontano della sensazione che provano una volta immersi nell’acqua, dove la gravità sembra scomparire, e le malattie e le ferite passano inosservate, facendoli sentire di nuovo giovani. Ma raccontano anche di come per loro, nuotatori parte della minoranza afroamericana, la piscina è diventata un luogo di guarigione fisica ma anche psicologica, poiché hanno vissuto in prima persona l’era delle piscine segregate negli Stati Uniti, ricordando com’era quando potevano andare in piscina solo nei “giorni colorati”, e quando la piscina doveva essere svuotata il giorno successivo perché i bianchi erano troppo disgustati per nuotare nella stessa acqua dei neri. Raccontano, infine, di come la desegregazione delle piscine negli anni ’50 e ’60 ha portato allo sviluppo di piscine private e una conseguente mancanza di investimenti nelle piscine pubbliche, problema che persiste tutt’oggi e costituisce una vera e propria forma di discriminazione nei confornti delle minoranze afroamericane e ispaniche che abitano i quartieri più periferici, come spiega lo storico Jeff Wiltes in Contested Waters: A Social History of Swimming Pools in America.

Chiara Negrello (1995), fotografa documentaristica con sede a Firenze, focalizza la sua pratica sulle figure femminili, come dimostra il lavoro esposto, Like the tide, che vede protagoniste un gruppo di donne pescatrici di vongole attive nel Delta del Po, in Emilia Romagna. In un paese in cui la disparità di genere in campo lavorativo – e non solo – è un problema aperto e reale, Negrello cerca di riposizionare lo sguardo, cambiare punto di vista, da uno più tradizionalista e patriarcale, a uno in grado di restituire un’altra storia, quella di donne che per tre generazioni sono state parte integrante del motore economico che ha sollevato le sorti delle loro famiglie e della regione intera. Nel caso delle fotografie della serie, poi, questo avveniva durante la pandemia di Covid-19, un periodo particolarmente duro e incerto. Nei volti, nei gesti di queste donne, tuttavia, è sempre presente la dedizione, l’umiltà e la naturalezza con cui svolgono il proprio lavoro, e che concilia da una parte l’impegno in un’attività fisicamente impegnativa, e dall’altra la cura verso la terra e la comunità intera, in un atto di ciò che la filosofa Donna Haraway chiamerebbe coabitazione. 

Ian Cheibub (1999), fotografo documentarista brasiliano, nei suoi lavori indaga i meccanismi e le strategie che gli abitanti del cosiddetto “sud del mondo” mettono in atto per sopravvivere e autorappresentarsi, grazie a strumenti culturali, politici e sociali. Con There’s a hole inside us, Cheibub porta a galla il fisico e il metaforico di quel buco, che è il vuoto dovuto agli scavi nella regione che comprende Carajás, la più grande miniera di ferro del mondo, sita nel cuore della foresta pluviale, ma è anche il vuoto degli abitanti che vedono la propria terra espropriata per denaro. Una volta centro del più importante movimento di guerriglia brasiliana, nel 1982, 10 anni dopo la fine dei combattimenti, governo brasiliano e Stati Uniti, con il progetto Great Carajás, hanno sfruttato, depredato un immenso territorio, umano e non, seppellendo sotto i 900.000 km² della regione i corpi e le storie di coloro che quel territorio lo abitavano, lo vivevano, lo curavano. Il lavoro di Cheibub, quindi, mira a ricostruire come certi miti e riti sono usati dalle popolazioni autoctone come mezzi di sovversione della propria condizione, che non vivono passivamente ma anzi rendono produttiva ritraendosi come protagoniste della società, affermando la loro centralità nel complesso rapporto che intercorre tra cultura, dipendenza e sfruttamento, tra l’ambiente che si abita e la sua storia. 

Mikkel Hørlyck (1990), fotogiornalista danese i cui progetti si concentrano in particolare sull’ingiustizia sociale, la spiritualità e la ricerca di sé, si cala nelle situazioni che intende raccontare, nel tentativo di restituire una visione insieme autentica e personale delle crisi umanitarie. In Cascina presenta Last Stronghold, in cui i volti dei migranti provenienti dalla Bosnia esprimono chiaramente il senso di sconfitta e impotenza dovuti ai continui respingimenti al confine croato, dove la polizia non esita a violare i più basici diritti umani, lasciando solo sognare quell’”ultima roccaforte” – solo in teoria – che potrebbe essere l’Unione Europea, la quale ha concesso alla Croazia 150 milioni di euro proprio per bloccare rifugiati e migranti alle frontiere. Soggettività diasporiche, in un limbo che non è solo geografico ma anche personale, che porta allo stesso tempo all’allontanamento dal proprio paese, dai propri affetti a causa di conflitti e povertà, in cerca di una condizione di vita meno precaria, e l’impossibilità di tornarci per le stesse ragioni. 

Stephan Lucka (1979), fotografo freelance di Dortmund (Germania), nella sua pratica esplora il concetto di identità in un determinato contesto sociale e culturale, ed è quello che fa anche in The Feeling We Only Know, ponendo al centro il mondo degli Scout. Scout lui stesso in gioventù, per realizzare il suo progetto fotografico si riunisce a loro, in un ambiente familiare e, secondo gli stessi, “indescrivibile”. Uno dei più grandi movimenti giovanili al mondo (circa 46 milioni), gli scout formano il proprio microcosmo socioculturale, che tuttavia riflette sempre un contesto sociale più ampio, fondato, come le fotografie cercano di raccontare, sulla crescita, l’amicizia e l’intimità, ma anche il rispetto e la considerazione necessari affinché si possa vivere in comunità. 

Al parco Laghetto Europa è, come già accennato, visitabile la mostra di Jana Mai (1989), nata ad Almaty (Kazakistan) e cresciuta in Germania. Fotogiornalista e fotodocumentarista, i suoi lavori interessano i temi legati alla memoria collettiva, al rapporto tra cultura tradizionale e identità, e al senso di appartenenza, come ben dimostra la serie fotografica The Descendants of the Wolves. Qui Mai ci porta in una piccola regione autonoma della Repubblica Moldava chiamata Gagauzia, abitata da una minoranza turca di fede ortodossa cristiana e i cui componenti sono chiamati i “discendenti dei lupi”. Secondo una leggenda, infatti, i gagauzi subirono un devastante attacco da parte dei loro nemici, durante il quale sopravvisse solo un bambino, che fu trovato e accudito da una lupa, diventando così l’antenato dei gagauzi. Oggi la sopravvivenza del popolo gagauzo è minacciata dalle pessime condizioni economiche del paese, che porta i giovani ad allontanarsi dalla terra natia in cerca di condizioni economiche migliori. Di conseguenza, quindi, anche l’identità culturale gagauza si avvia a un progressivo declino, tanto che la lingua propria è praticamente completamente soppiantata dal russo e dal moldavo, e il racconto delle origini, così fondativo, viene lentamente ma decisamente dimenticato. Tuttavia, gli anziani cercano orgogliosamente di preservare l’identità del popolo, le tradizioni e soprattutto la lingua. Negli scatti di Mai convivono queste due anima di una identità culturale nel suo lento declino: i volti fieri e festosi delle persone che vivono i propri riti quotidiani e di socialità, e i giovani in abiti tradizionali durante le feste folcloristiche prima di avviarsi verso un futuro lontano dalla terra – e dall’identità – gagauza. 

I “nuovi sguardi” in mostra a Cascina Roma Fotografia rispondono, dunque, all’interrogativo iniziale, dando una dimostrazione visiva alle parole di Susan Sontag, mostrandoci la superficie di quello che è un mondo più complesso, e invitandoci a esplorarlo, viverlo, interrogarci su di esso e sulle sue implicazioni, mantenendo sempre uno sguardo vigile, attivo. 

Luna Protasoni

Nuovi sguardi: la giovane fotografia internazionale
22 aprile – 4 giugno 2023
San Donato Milanese, Cascina Roma
Piazza delle Arti, 6 (spazi cascina)
Via I Maggio, 8 (parco Laghetto Europa)

lunedì a sabato 9.30-12.30 / 14.30-18.30
domenica 10:00-12:30 / 15:00-19:00

cascinaromafotografia.it


1. Susan Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, Torino, 2004

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