Sperimentare, in una continua ricerca di ciò che non è immediatamente visibile all’occhio, è sempre fonte di grande meraviglia, come dimostrano le opere di Chiara Dondi.
Nata e cresciuta a Bologna, laureata in Disegno Industriale all’Università di Firenze, ha sin da piccola mostrato grande interesse verso i linguaggi visivi, la pittura prima, e la fotografia analogica poi. Nell’ottica di una compenetrazione tra le due forme espressive, inizia ad utilizzare le fotografie stampate come tele su cui dipingere, dandogli una “seconda occasione” per avvicinarsi in maniera più aderente all’idea di partenza. Rielaborazione, e non postproduzione: l’aggiunta cromatica che Chiara fa ai suoi scatti si configura come una seconda possibilità di vedere ciò che all’origine, istintivamente, ha colpito la sua attenzione, andando oltre l’immediato.
Nella ricerca incessante che anima la pratica di Chiara il corpo svolge un ruolo chiave: racconta, traccia, scrive storie e microstorie, e la sua rappresentazione, che in questo caso è di un corpo “altro”, diventa strumento privilegiato per conoscere meglio il proprio, di corpo; come lo percepisce chi lo abita, e come viene percepito da chi ci si avvicina. Un esercizio di empatia che rende il lavoro di Chiara intrinsecamente contemporaneo e necessario, discostandosi dalla fiumana di immagini che esibisce corpi nudi senza profondità, e rendendo, tramite l’intervento diretto sulle fotografie, i suoi corpi parlanti.

Come e quando è nata la tua personale storia della fotografia?
Da quando ero piccola ho sempre disegnato, dipinto, saltellando da una tecnica all’altra perché sono sempre stata una persona molto curiosa. Poi, piano piano, mi sono sempre più stancata del dipingere fine a sé stesso e, un po’ complice mio padre, un po’ le persone mi circondavano, mi sono avvicinata alla fotografia. All’inizio, paradossalmente, alla fotografia digitale, di cui però soffrivo la mancanza della parte materica, di pensiero, di lentezza. La mia passione è nata, quindi, sì, durante gli anni universitari, ma sempre per sperimentare qualcosa di nuovo, sapevo bene cosa volevo ottenere ma non sapevo come farlo.
Storicamente si dice che l’avvento della fotografia abbia, almeno in parte, soppiantato l’esercizio pittorico. Come riesci, tecnicamente e concettualmente, a conciliare questi due linguaggi all’interno della tua pratica?
Premettendo che ci sto ancora provando, che quello che produco sono ancora tentativi, e non mi sembra di arrivare mai a una fine, posso affermare che la pratica è molto più semplice del concettuale. Concettualmente, mi piace l’idea di fotografare qualcosa che in quel momento ha un senso, dentro al suo spazio, con le sue luci e i suoi colori. Tuttavia, mi piace scattare in bianco e nero, ed è qui che concettualmente mi aiuta la pittura, facendomi stravolgere completamente quello che ho ripreso. Per esempio, mi capita spesso di fare dei set in esterna, durante l’inverno, e trasformare i prati secchi in un prato fiorito: non voglio il limite che mi dà la fotografia classica, quanto piuttosto dargli una mia interpretazione tramite la pittura.
Ti sei avvicinata, grazie alla presenza di suo padre, alla fotografia analogica, tecnica che ancora preferisci e utilizzi. Cosa rende la pellicola, rispetto al digitale, strumento privilegiato per sviluppare la tua poetica?
La tensione che c’è intorno. Non sono una persona naturalmente tranquilla, necessito anzi di stare un po’ sulla graticola, e l’analogico mi dà questa sensazione. Le ragazze con cui fotografo sanno che termino sempre un set dicendo “secondo me vengono benissimo, se vengono”. È questa sensazione di non sapere fino all’ultimo cosa è successo, mi piace l’idea che quello che guardo non corrisponde spesso a ciò che ottengo. Ci sono delle sorprese, e queste sorprese mi fanno affamare.
Con Study of a nude ti approcci per la prima volta al nudo. Come mai questa scelta? In che punto della tua ricerca si colloca?
Si tratta, più che di una ricerca fotografica, di una ricerca di sé stessi. Per fotografare il nudo, secondo me, si deve essere pronti, è una cosa che bisogna sentire dentro, dal momento che si tratta di comprendere ciò che è contenuto nel corpo, e verso cui si deve portare rispetto. Fotografare un corpo nudo che, almeno in questa fase, non è il mio corpo, è più essere in una fase della vita. Inoltre, per la concezione che ho io della fotografia, è poi un riflesso di com’è la mia ricerca fotografica.
Nelle fotografie della serie, grazie alla particolare tecnica che utilizzi, il corpo emerge da un fondo scuro, letteralmente si astrae dalla realtà, e nella progressione degli scatti sembra quasi liberarsi. È un corpo che trova sé stesso? Che tipo di narrazione metti in atto?
È un corpo che cerca di conoscersi e nel frattempo mi aiuta a conoscerlo. In questo momento c’è una grande attenzione al corpo, e mi piace l’idea di studiarlo anche per conoscerlo, per conoscere qualcosa di diverso da me e da come mi vedo, anche perché spesso non mi vedo mai per come vengo percepita. È un esercizio di percezione: percepire il corpo degli altri, lo spazio che occupa, le forme, anche gli imbarazzi che si possono creare dal porsi, nudi, di fronte a un obbiettivo. È, quindi, anche un esercizio di fiducia.











In tutti gli scatti della serie fotografica il volto, quando non è proprio tagliato, è comunque nascosto. Come mai questa scelta?
È stata una scelta più per concentrarsi sul corpo in sé e sulle sue forme. Non mi interessava dare un volto a un corpo, non era quello che stavo ricercando, anzi. Credo che il viso avrebbe distratto l’occhio.






Traces © Chiara Dondi
In altre tue serie fotografiche, come Interno/Esterno giorno, o Traces, le figure, i volti, si inseriscono (e si sovrappongono) in spazi reali,descrivibili: gli interni di una casa, un cortile, un giardino, per esempio. Che rapporto c’è tra il corpo che ritrai, e l’ambiente in cui è inserito? Che significato ha lo spazio che lo circonda?
Si tratta sempre di un rapporto biunivoco. le ragazze che fotografo spesso ritornano, ed è interessante notare come le persone cambino a seconda degli spazi e dei posti in cui si trovano. C’è un rapporto, anche se non so definirlo con precisione. Ma la stessa persona che fotografo in mezzo alla natura ha un modo di porsi completamente diverso rispetto al fotografarla in una villa, o nell’intimità del mio studio. Credo che, dentro di me, siano tentativi per capire quanto una persona può cambiare, cosa può offrire di diverso a seconda di dove si trova.






Interno/Esterno giorno © Chiara Dondi
Me through the storm, Me after the storm sono due serie complementari in cui il corpo si fa portatore di fragilità, di un dolore che, come una pianta rampicante, stritola dentro e fuori. Quando e in che modo la fotografia può essere uno strumento terapeutico, uno strumento utile a riappropriarsi di sé, in un processo che coinvolge mente e corpo?
Questo è un ambito estremamente personale. Credo che la fotografia terapeutica sia molto importante e utile nel momento in cui si è pronti a guardare in faccia la propria situazione. In quel momento, estraniarsi e guardarsi da fuori può davvero dare una svolta, e a me l’ha data. Nelle mie fotografie amo molto inserire immagini simboliche, ragionare su come rendere visibili le sensazioni fisiche che i miei disagi mi davano, e questo mi ha portata a passare diverse notti insonni alla ricerca del modo più efficace per far capire al primo sguardo come mi sentivo. Questo mi ha portata a vedermi da fuori, anche con gli occhi degli altri. Inoltre, è stato un esercizio utile perché mi ha portata a capire come anche gli altri potevano aiutarmi, come è possibile chiedere aiuto alle altre persone e non rimanere ancorata nella fissazione di dover fare sempre tutto da soli.




Me through the storm © Chiara Dondi




Me after the storm © Chiara Dondi
Pensi che fotografare il proprio corpo sia più un racconto di sé, o è piuttosto una ricerca dello stesso?
Penso sia un raccontarsi qualcosa, ricercare un racconto di sé, creare una propria storia e raccontarla. Se considero tutte le fotografie che ho fatto negli anni, al di là della crescita, della ricerca che cambia, mi rendo conto che essa è cambiata con me, quindi mi sto raccontando una storia. Chissà dove mi porterà.
Nelle tue fotografie è molto bene esplorato il concetto di corpo femminile. Se un domani dovessi cominciare a lavorare, invece, sul corpo maschile, come cambierebbe la tua modalità espressiva? Rimarrebbe su questo tipo di fotografia o sarebbe completamente diversa?
Da quando ho iniziato a interessarmi al nudo, quindi a spogliare le persone, ho pensato se non fosse il caso, prima o poi, di fare una piccola incursione anche nel nudo maschile. Il punto è che mi piace avere un rapporto intimo con chi fotografo, e non ho ancora individuato chi potrebbe essere. Per me, una fotografia funziona quando c’è uno scambio tra me e la persona che sto fotografando, e questo necessita di un minimo di confidenza. Credo che la modalità espressiva cambierebbe perché immagino un maggior focus sui dettagli rispetto alla visione totale della persona e dello spazio. Sarebbe, quindi, una conoscenza molto ravvicinata, qualcosa di ancora più intimo.
Cosa ne pensi, oggi, del nudo di altri artisti e artiste? Confrontando la tua opera con quella di altre persone che propongono una lettura del corpo quali differenze e/o somiglianze noti?
Seguo tantissimi fotografi, come è normale e secondo me necessario per guardarsi intorno e conoscere quello che fanno gli altri, il che non solo arricchisce, ma fornisce prospettive diverse. Tuttavia, cerco sempre di evitare il confronto, di conoscere senza però farmi troppo influenzare. Per quanto riguarda il nudo, è qualcosa di cui siamo totalmente succubi, e con l’accesso a Internet e in generale tramite i media, è possibile avere a disposizione foto di corpi nudi continuamente, ma diversa è quella visione più intimistica e più sincera degli stessi. A me piacciono molto le foto poco ritoccate, molto vere, del corpo. La mia visione del nudo ha come elemento distintivo, innovativo, l’interpretazione pittorica, che è come una firma; se non sono soddisfatta della fotografia, posso intervenire con la pittura e avvicinarla a ciò che avevo in mente. La pittura mi dà una seconda possibilità di vedere il corpo. Fare nudo e vedere un corpo, infatti, non sono la stessa cosa: vedere un corpo significa inserire all’interno della fotografia anche il tentativo di comprenderlo, e non solo di rappresentarlo. Non è un’operazione sterile, e richiede una grande responsabilità.
Luna Protasoni
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